11 settembre 2012

Bella Addormentata, un Leone mancato o un’occasione persa?

 
Ha ragione la giuria: il film non meritava il premio. Non regge la sceneggiatura, poco rigorosa e che si perde in inutili storie parallele. Troppo locale il tema, trattato com'è da dilemma religioso, per interessare fuori dai nostri confini. Ma un merito il film ce l'ha: è il ritratto incupito di un Paese slabbrato. Tanto da far pensare che la Bella Addormentata sia l'Italia stessa [di Ludovico Pratesi]

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Strano questo festival di Venezia, che si ostina a non premiare i film che gli italiani ritengono “capolavori”. Vi ricordate? Era successo anni fa con il costoso (e inutile) Baaria di Giuseppe Tornatore, e ora accade di nuovo con Bella addormentata di Marco Bellocchio, che non riesce a portare a casa né il Leone d’Oro, assegnato al bravissimo coreano Kim Ki Duk con Pietà, né nessuno degli altri diciassette premi. Una sconfitta su tutta la linea, secondo una tradizione che va avanti dal 1998, quando l’Italia vinse il suo ultimo Leone con Così ridevano di Gianni Amelio.

Ho visto il film di Bellocchio, e sinceramente concordo in pieno con la giuria del festival: non avrebbe mai potuto aggiudicarsi il premio, perché ha tutti i difetti della maggior parte del cinema italiano di oggi. A partire dal tema, certamente molto sentito da noi, ma assai meno esportabile, infarcito di una morale cattolica beghina e bigotta che commuove assai poco platee meno sensibili all’argomento visto sotto l’ottica religiosa. E poi dalla sceneggiatura, che nell’affiancare la vicenda di Eluana Englaro con altre storie parallele si perde in descrizioni inutili, sul filo di una narrazione labirintica e confusa, di cui è difficile seguire il ritmo che risulta lento e compiaciuto. Una sceneggiatura più adatta ad una fiction televisiva, che ad un grande film.

Melium abundare quam deficere sembra essere il motto di Bellocchio, che ci conduce in maniera solenne e quasi mistica, ma a tratti decisamente noiosa, in tante storielle di casa nostra dominate da una pomposa ed inutile autoreferenzialità. Come direbbe una professoressa di liceo: spunto interessante ma svolgimento farraginoso, che non rispetta la questione principale, ma la annacqua in una miriade di vicende non necessarie, che fanno perdere allo spettatore il senso e la complessità del problema.

Ma se per un pubblico internazionale il film non è così fondamentale, a noi italiani invece Bellocchio restituisce un affresco deprimente e malinconico sull’Italia di oggi, rafforzato dalla corrusca e plumbea fotografia di Daniele Ciprì. Un Paese triste popolato da personaggi depressi e senza passioni, che si è adeguato ai dettami di una televisione onnipresente, accesa in qualunque luogo e a qualsiasi ora, come una presenza che riempie esistenze vuote e disperate, asservite al padrone dello schermo, allora presidente del Consiglio di una nazione di irresponsabili. E in questa patetica verità sta la forza della pellicola, dove ogni personaggio si dibatte per ritrovare una dignità di essere umano, una centralità morale e intellettuale che sembra perduta per sempre nello sforzo di sopravvivere comunque per adeguarsi alla decadenza generale. La cercano, a loro modo, tutti i protagonisti. Ma l’unica ad averla è la madre di Rosa, un’ex attrice che ha rinunciato alla carriera per vegliare la figlia malata come Eluana Englaro: una strepitosa Isabelle Huppert dal volto macerato dalla rassegnazione. Silenziosa, centrata, ieratica come una santa dipinta da Zurbaran, ci ricorda la grandezza del nostro cinema storico, di attrici come Anna Magnani o Silvana Mangano che Bellocchio probabilmente rimpiange, ma non riesce a restituirci, come hanno fatto invece i Taviani con Cesare deve morire.

Forse la ricetta giusta per svegliare l’Italia addormentata è la loro: rigore, sobrietà, precisione nella narrazione, temi forti e adatti ad un pubblico internazionale, ma trattati con il ritmo giusto senza autocompiacimenti. Allora forse i Leoni d’Oro riprenderanno la strada della penisola.

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