09 maggio 2003

Il pittorialismo italiano

 
Negli anni in cui si dibatteva sui rapporti tra arte e foto Torino era un crocevia culturale. Valutiamo il fenomeno del pittorialismo italiano attraverso l’opera di due diversi interpreti di questo stile: Domenico Riccardo Peretti-Griva e soprattutto Guido Rey. Proseguono i minisaggi di approfondimento fotografico su Exibart...

di

Torino è stato, negli anni intorno al Novecento, il centro-laboratorio in cui gravitò la discussione teorico-estetica sulla fotografia del nostro paese. Qui ebbero luogo le esposizioni fotografiche più importanti, tra cui quelle del 1898 e del 1902. In quest’ultima fece la sua prima apparizione europea il Photo-Seccession, il movimento fondato, in quello stesso anno, da A. Stieglitz. Anche E. J. Steichen, inizialmente pittorialista, partecipò a quell’esposizione come membro del noto sodalizio nordamericano che si interrogò per primo sull’autonomia della fotografia rispetto alle altre arti (pittura su tutte) e che trovò la risposta nello specifico fotografico. Torino fu anche la città in cui, tra il 1904 e il 1917, si pubblicherà “La Fotografia Artistica ”, rivista, diretta da A. Cominetti che si propose di legittimare la fotografia come arte visiva. Figlio di questi fermenti culturali, il torinese Guido Rey (1861-1935) è stato peretti-griva-1920-acquaiol l’esponente di maggior spicco del pittorialismo italiano. Con lui la parabola pittorialista si conclude e lascia intravedere caratteri che saranno peculiari dei movimenti fotografici a venire, primo fra tutti il modernismo americano di Stieglitz.
Naturalmente sacche di resistenza meno emancipate protrassero la fotografia pittorialista italiana fin dopo il secondo dopoguerra. E’ il caso di Domenico Riccardo Peretti-Griva (1882-1962) che operò fino agli anni ’50. Italo Zannier interpreta questa perseveranza come una scelta obbligata, dovuta al sopraggiungere del fascismo, quando i fotografi italiani si trovarono: nell’impossibilità, d’altronde, di affrontare con la fotografia le tematiche sociologiche e le formule espressive altrove praticate in quegli stessi anni, sia nell’ambito del fotogiornalismo, che in quello delle avanguardie storiche (Zannier, 1988). Peretti-Griva rimase così legato al pittorialismo per tutta la vita, al contrario di Rey che fu anche fotografo paesaggista specializzato in riprese d’alta montagna.
Influenzato inizialmente dalla fotografia inglese coeva, quella d’ispirazione preraffaellita, nonché dalle teorie di Emerson, già sul finire del secolo l’opera di Guido Rey si presenta carica di valori originali che vanno al di là di una visività fine a se stessa. Nonostante l’iconografia delle sue opere sia debitrice nella luce, nei punti di vista e nei soggetti, della pittura fiamminga del Seicento (Vermeer in primis), il contenuto si situa agli antipodi dei maestri olandesi “protofotografici”; al di là del responso visivo fenomenico, Rey privilegia infatti l’immaginario e la dimensione temporale. A differenza dei pittori fiamminghi, cui Rey rende comunque il proprio tributo, il fotografo non ricerca l’impressione icastica, implicita nell’automatismo fotografico. Quello cheGuido Rey circa 1908 interessa all’autore piemontese è la rappresentazione concreta dell’immaginario, la realtà tangibile e illusoria, ottenuta attraverso specifici fotografici quali: l’evocazione temporale (lo “specchio della memoria”, la presenza in assenza) e l’oggettività meccanica (l’obiettività di uno strumento scientifico). Così, grazie alla macchina fotografica ed alle credenziali scientifico-realistiche che gli vengono attribuite, Rey inscena un viaggio a ritroso nel tempo, riprende delle scene in costume con un rigore ed un realismo sconosciuto fino ad allora, quasi delle istantanee catturate da una macchina del tempo. Capovolgendo un noto slogan pubblicitario si potrebbe dire che quella di Rey è fantascienza e non scienza. Così E. Thovez definisce nel 1898 le fotografie di Guido Rey: evocazioni di vita antica, elaborate in modo da raggiungere un’intimità espressiva che fa dimenticare il fotografo, la composizione, l’anacronismo, per lasciar operare sui nostri occhi e sulle nostre anime la scena nella sua piena efficacia… . Risulta emblematico l’interesse che Thovez riserva all’opera di Rey, se consideriamo che il critico fu tra i primi a valorizzare la componente concettuale della fotografia: in nessun arte un temperamento poetico può e deve esplicarsi quanto nella fotografia. Infatti, mentre in qualunque altro ramo: pittura, musica, letteratura, scoltura sono indispensabili o quasi certe doti di abilità meccanica per l’estrinsecazione formale del fantasma poetico, nella fotografia basta la sola capacità intellettuale; a tutto il resto pensano le lenti ed i reagenti chimici e ancora: in quest’arte, in cui è esclusa ogni possibilità di virtuosità tecnica, la scelta è tutto (Thovez 1898). A sottolineare la lungimiranza critica di Thovez ricordo che sarà su queste premesse che, un trentennio dopo, sarà rivalutata l’opera di Atget.
Nel prossimo approfondimento esamineremo più esaustivamente l’opera di Guido Rey.

articoli correlati
André-Adolphe Disdéri e <A href= "la" fotografia
Fotografia “pre raffaellita”
I fotografi “pre raffaelliti”
Peter Henry Emerson e Nadar

roberto maggiori

[exibart]

1 commento

  1. Il 15 febbraio 2006 uno scatto del 1904 di Edward Steichen, “The Pond-Moonlight”, 40×49 cm, è stato battuto all’asta di Sotheby’s a New York per la cifra record di 2.928.000 dollari, la somma più ragguardevole che sia mai stata pagata per una fotografia, un evento che induce a considerazioni di carattere generale per una serie di anomalie.
    La foto di Steichen è un tipico esempio di pittorialismo, di approccio alla fotografia nei termini di una sensibilità eminentemente pittorica, in antitesi ad un atteggiamento purista che vorrebbe la fotografia risultato genuino di un’operazione tecnica esclusivamente strumentale: anche questa via, alla pari del pittorialismo, si presta in effetti a molte contestazioni, trattandosi di una possibilità ampiamente aleatoria per l’inevitabile presenza umana di chi esegue la fotografia secondo scelte soggettive ed inquinanti, basti pensare alla profonda trasformazione compiuta dalla ripresa fotografica su una realtà non semplicemente duplicata, ma astratta dal suo contesto e divenuta un perfetto analogon della realtà stessa, dalla quale tuttavia differisce profondamente.
    Comunque, pur nella complessità delle attribuzioni che si possono far convergere sulla fotografia, essa resta una disciplina autonoma e caratterizzata, diversa dalla pittura, anche se, in termini di classificazione stilistica, si può parallelamente alla pittura parlare di fotografia Art Nouveau, Decò, Espressionista ecc., denominazioni intese non tanto come paradigmi estetici, ma come categorie dello spirito.
    La prima anomalia è insita nel concetto stesso di pittorialismo, una fotografia che vorrebbe ottenere con mezzi tecnici impropri, la macchina fotografica anziché pennello e colori, gli stessi risultati di libertà formale e rappresentativa della pittura, evadendo dai dogmi del tecnicismo imposti dal mezzo.
    Ma se è vero che la tecnica rappresenta una dura lex alla quale si deve soggiacere, è anche vero che ognuno può liberamente scegliere la tecnica più idonea o addirittura inventarsene una che esprima al meglio le proprie esigenze espressive ed estetiche (non dimentichiamo che “téchnai”, nella sua originaria accezione, è l’equivalente di “arte”, che in antico significava il complesso delle attività umane che richiedono abilità tecnico-pratiche finalizzate a produrre un’opera): il pittorialismo, che imita passivamente l’arte canonica ed accentua, anziché superare, la sudditanza della fotografia alla pittura nella la ricerca di un forzato mimetismo pittorico per superare una presunta freddezza espressiva del mezzo tecnico, si potrebbe sinteticamente definire una scelta sbagliata, perché antitetica rispetto al concetto stesso di fotografia, coinvolgendo in un giudizio sostanzialmente dubitativo, se non negativo, le opere che la esprimono.
    La seconda anomalia sta nell’approccio alla fruizione di una forma d’arte, quella fotografica, che impegna meccanismi mentali e produce esperienze estetiche diverse da quelle del quadro dipinto o di un disegno e quindi non ha titolo per sostituirsi ad esso.
    Vale la pena di rispolverare Walter Benjamin ed il suo concetto di ‘aura’ per ricordare che parte del godimento estetico davanti ad un dipinto deriva dalla consapevolezza della sua esclusività, del “hic et nunc dell’opera d’arte la cui esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova”.
    Ora, la fotografia nasce come forma espressiva tipica dell’epoca tecnologica, per la quale si è verificata una “decadenza dell’aura”, ed ha la peculiarità di essere indefinitamente riproducibile conservandosi qualitativamente immutata, dalla prima all’ultima stampa, permettendo una divulgazione illimitata e sempre uguale del proprio messaggio che pare così escludere ogni pretesa di elitarietà.
    L’esiguità numerica degli esemplari stampati non costituisce quindi alcun oggettivo valore aggiunto per un’opera fotografica, come accadrebbe invece per una litografia o un’incisione, e mentre nel caso di un dipinto la rarità è un pregio da difendere e valorizzare, per la fotografia essa è un difetto da eliminare perché ostacolo alla fruizione di massa.
    La labilità e la ripetitività dell’immagine fotografica fanno parte del suo essere fotografia, nel momento in cui viene incongruamente fruita in altro modo essa diventa altro.
    Non è necessario dibattere se questa perdita dell’aura sia un bene o un male, se inauguri un nuovo concetto di opera d’arte o ne demolisca quello corrente, è semplicemente un dato che va recepito nel bagaglio culturale della modernità: neanche Benjamin si esprime al proposito in termini inequivocabili, senza dare un chiaro giudizio di merito quando stabilisce una netta distinzione tra arte classica ed arte moderna, intendendo quest’ultima legata a procedimenti tecnologici che sempre permettano la replicazione dell’opera.
    La terza anomalia discende dalle precedenti e riconduce allo spunto iniziale: perché mai il mercato premi con cifre al di sopra di ogni merito un’opera di questo tipo, oggettivamente di valore artistico assolutamente modesto, resta un’incognita, o il sintomo di quella che Robert Hughes, critico d’arte autore del brillante saggio “The Culture of Complaint”, fautore in più occasioni di un duro dibattito sulla moralità dell’escalation dei prezzi nel mercato dell’arte e sulla mercificazione delle opere, definisce “un’indecorosa isteria del mercato” o anche una “oscenità culturale” che asseconda un patologico desiderio di possesso”.
    E’ ancora Hughes che dichiara, in occasione della vendita di un mediocre Picasso datato 1905, “Il ragazzo con la pipa”, avvenuta nel 2004, “quando un super ricco paga per un immaturo Picasso del periodo rosa una somma pari al reddito nazionale annuo di certi Paesi africani o dei Caraibi, vuol dire che c’è davvero del marcio”.
    Appare evidente come oggi l’arte rappresenti un importante fattore in progetti di marketing di imprese private, società di investimento o grandi finanzieri ed il fatto che cifre così esorbitanti concernano in genere opere di scarso valore artistico sembra inquadrarsi in “una lacrimosa avversione all’eccellenza” tipica dell’imperante cultura del piagnisteo che tende a privilegiare i mediocri, nella quale il concetto di “politically correct” sostituisce ogni giudizio di merito e qualità per una neutralità morale che non fa sperare nulla di buono su ciò che la cultura può diventare nel prossimo futuro.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui