07 giugno 2022

Cronache di un tempo sospeso

di

Spazi appesi a un tempo invivibile. A Villa Croce l'inedito duo Giacomo Costa e Giorgio Musinu, tra progresso e regresso della società civile

Giacomo Costa - Elemento 3 - 2021 - C-print - courtesy l'artista

Giorni fa vi abbiamo deliziato con Israele. Non era scritto nelle stelle, ma più semplicemente nella programmazione: Villa Croce l’avremmo salutata sapendo di tornarci presto. Stavolta al piano nobile, dove c’è tutt’altra atmosfera. Powered by Giacomo Costa (Firenze, 1970) e Giorgio Musinu (Genova, 1990), messi insieme dalla curatela di Linda Kaiser.

NOWHEN NOWHERE Giorgio Musinu Giacomo Costa. La sospensione del tempo e dello spazio è l’incontro a cui pochi avrebbero pensato, di cui tuttavia molti ora avranno bisogno. Hanno vent’anni esatti di differenza. Hanno personalità differenti. Hanno stili completamente opposti. In una parola: perfetti.

Costa lo conoscono anche i muri (ora persino quelli di Villa Croce). Sa manovrare il fascino discreto dell’apocalisse, lasciando il pubblico puntualmente in estasi di fronte alla non-bellezza del creato da lui (digitalmente) ri-creato.

Le sue vedute “cataclismatiche” – «La tragedia attira ed è un modo per esorcizzare» dice – sono il nowhen immaginato da uno che, contrariamente alle aspettative di massa, dice «Sono una persona ottimista, c’è margine di miglioramento in questa società». Se lo dice lui, sull’onda delle tematiche ambientali da fine anni ’90 (ben prima che queste diventassero «Argomento mainstrem», ci tiene a precisarlo), c’è da fidarsi. Tuttavia davanti a una plausibile simil-Venezia, triste ma non nel senso malinconico che cantava Charles Aznavour, la citazione da giocarsi è sempre quella: Io speriamo che me la cavo.

Giacomo Costa – Atmosfera 10 – 2019 – C-print – cm 80×240 – courtesy l’artista

Costa, giudizi universali 3.0

Una sezione a parte va dedicata alle origini toscane di Costa, che ne fanno un figlio legittimo della grandezza narrativa di un territorio, oltre che di un certo modo di pensare le immagini. Di un tempo passato, in cui grandi operazioni visuali come un Giudizio universale tintinnavano dentro le orecchie e davanti agli occhi dei fedeli, di qualunque estrazione. Vi proponiamo tre esempi noti: Cappella Sistina di Michelangelo, Giotto alla Cappella degli Scrovegni, Giorgio VasariFederico Zuccari nella cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze.

Costa pare cavalcare a briglia sciolta quell’efficacia narrativa, facendola avvalorare dalle dimensioni importanti dei suoi lavori. Dimensioni che contano, anche in senso più ampio, perché è in quelle che il lavoro di Costa funziona oggettivamente meglio; in pezzi tipo Atmosfera 10, dove il nostro riesce a dar fondo a tutta la tridimensionalità fittizia delle sue elaborazioni digitali.

Le finestre illuminate, le serrande alzate, i motori dei condizionatori appesi sui balconi. Le grandi dimensioni non esautorano da uno sguardo (molto) ravvicinato verso i piccoli dettagli, dei pattern che fanno la narrazione e rendono l’operazione di Costa meno fantascientifica del previsto. Più inquietante del previsto, in quanto carica di elementi affini al nostro tempo, al nostro quotidiano vedere.

C’è la spersonalizzazione dell’individuo (comprovata da titoli che si dividono unicamente per serie e sequenze numeriche). C’è vita, solo non si sa per quanto ancora.

Giorgio Musinu – Monopolio – 2019 – stampa ai sali d’argento – cm 90×54 – courtesy l’artista

Musinu e l’altra metà del Nowhen Nowhere

Musinu corre su un’altra fascia. Come un urban explorer si cala all’interno di luoghi fatiscenti che descrivono una dimensione ugualmente complessa, perfettamente opposta a quella panoramica di Costa.

È una riflessione non distante da quella di un Gian Maria Tosatti a Venezia. Diremo di più, ce lo vedremmo bene insieme a Gian Maria, a riflettere sullo stato attuale astraendolo, sospendendone il tempo nei suoi lavori effetto di un progresso stagnante. A inscenare problematiche sotto gli occhi di tutti – come i condizionamenti dell’informazione – usando sistemi riconoscibili da chiunque: prendo macchina per la pasta, impugno manovella, trito fogli di giornale. Tre passaggi intuitivi quanto configurabili all’infinito. L’unica differenza – non da poco in verità – è che Giorgio si cala nelle situazioni, senza costruirle artificiosamente come in un padiglione, da ambasciatore universale e inalienabile di lavori in cui dice di esprimere un «Conflitto interiore». Non a caso.

A differenza di Costa, che si affida molto ai valori cromatici, Musinu produce solo in bianco e nero, fedele al guru Gianni Berengo Gardin e alla sua idea che il colore intervenga sulle immagini come una “arma di distrazione di massa”. Qua e là semina nelle immagini elementi parte del suo lavoro, come i cosiddetti “easter egg” che i registi inseriscono per far impazzire i cinefili più incalliti. Scatta in digitale, ma poi stampa ai sali d’argento; fa video, ma usa un mezzo sorpassato come il Super8, spiegando di amare quell’immagine un po’ sporca. Non a caso anche per la musica preferisce il vinile, col suo fruscio caratteristico.

Giorgio Musinu – Absurda – 2019 – stampa ai sali d’argento – cm 51×69 – courtesy l’artista

Dal generale al particolare. Costa incontra Musinu

L’incontro con Costa/Musinu? Garbato. Non da scintille. Diciamo un approccio determinato dall’incontro tra polarità complementari: interno/esterno, microscopico/macroscopico. Un bilanciamento pensato, sottile, quasi impalpabile. Per rendere l’idea, l’interdipendenza tra l’uno e l’altro è palese quando li si ritrova soli, a gestire le rispettive sale monografiche. Sono momenti di stacco ben pensati, utili a far risaltare oltremodo la validità della coppia.

Il ménage tra i due funziona particolarmente bene qualche sala più in là. Quando è il turno dei lavori video, Costa con 4 videobox della serie Timescape del 2018, Musinu con Radice del 2017.

Costa prepara il terreno col Nowhen della lentissima progressione (circa due ore) dei suoi lavori. Musinu chiude il cerchio col Nowhere dell’assolutezza di un abbraccio spettacolare non spettacolarizzato. Preparate il fazzoletto: Radice è coinvolgente, anche se non siete tipi da lacrima facile.

Ciò che stupisce è che il nostro Giorgio ce ne parli sì in maniera coinvolta, ma quasi senza rendersi troppo conto di cosa sia riuscito a tirare fuori in quei pochi secondi di Super8. Lui no, noi tra mani che si toccano, sguardi che s’incrociano e teste che si cercano reciprocamente altroché. In arte una progettualità avveduta paga sempre, l’Espressionismo però – in particolar modo quello astratto – ha insegnato che la spontaneità paga ancora di più.

Ultimamente nulla fa tendenza come infilare una citazione (per quelli davvero bravi anche di più) nel proprio discorso. Colta o non colta, l’importante è citare. Eccoci qui. Jackson Pollock diceva che «Dipingere è un’azione di autoscoperta. Ogni buon artista dipinge ciò che è». Giorgio non ha dipinto, ma il succo è esattamente lo stesso.

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