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Other Identity #145, altre forme di identità culturali e pubbliche: Francesco Sambati
Fotografia
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Francesco Sambati.

Other Identity: Francesco Sambati
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Se l’arte vuole comunicare, per me è esattamente il contrario: io non voglio comunicare qualcosa di specifico, affannandomi come vedo fare ormai in ogni settore: chiunque è smanioso di comunicare o raccontare qualcosa, sempre, il più possibile. In questo contesto, io voglio fare un passo indietro fare fotografia in primis (banalmente) per me stesso, non pretendo che qualcuno guardi una mia foto e ci veda necessariamente ciò che mi ha spinto a realizzarla o che sia io a imporre che in una foto X ci sia il contenuto Y: al limite, potrei dire di voler fare “comunicazione involontaria”.
Ciò che mi appaga di più è quando ascolto le sensazioni diverse che ognuno ha provato guardando le mie foto e va bene così, non mi piacciono le regole, come potrei imporne di mie per osservare le mie foto? Bisogna lasciarsi trasportare, non incatenarsi».

Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Chi può dirlo? Certamente non io, non credo di esserne in grado. Non ne cerco una, magari l’ho già trovata senza rendermene conto, ma domani sarò una persona diversa, anche solo impercettibilmente, da quella di ieri e così via. Questo influisce inevitabilmente su un giudizio riguardante la mia identità: preferisco non provare a identificarmi e lasciare che gli eventi facciano il loro corso al riguardo».

Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Personalmente poco e niente e vorrei dire di riuscire a farne completamente a meno ma alla fine ci si ritrova sempre sul confine tra il restare completamente fuori dall’apparire e il venire risucchiati nelle dinamiche del mostrarsi (ormai “per forza”, aggiungerei). L’importante è non superare mai completamente quel confine, d’altronde l’apparenza è qualcosa a cui badano sempre gli altri in primis».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Essere semplicemente, genuinamente, se stessi. Plagio e riedizione sono concetti che ormai fatico a capire se riguardino più gli autori o le opere.
Tutti affrontano gli stessi temi senza distinguere più chi lo fa per vero interesse o per aver fiutato che conviene cavalcare l’onda per farsi notare, infatti la ricerca affannosa a cui accenni la percepisco più nel voler farsi notare a tutti i costi. Preferisco essere banalmente me stesso che cercare di sembrare forzatamente “sul pezzo”».

ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Non credo, ma anche se volessi definirmi tale, l’ultima parola sta al giudizio delle persone esterne. Ricollegandosi al discorso sull’apparenza, anche l’essere definito è qualcosa a cui badano “gli altri”: c’è chi mi definisce artista, chi fotografo, chi niente di tutto ciò.
Forse all’inizio mi interessava sapere dove collocarmi, più spinto dalla curiosità che da un vero e proprio bisogno di saperlo, ma ormai ho capito che è superfluo: si va avanti in ogni caso, così come quando ho iniziato a fotografare senza che io fossi “definito” in qualche modo. Forse, se proprio dovessi scegliere scherzosamente, mi definirei un “osservatore praticante”».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Indubbiamente, l’editore di una casa editrice che si occupa del Fumetto a 360 gradi».

Biografia
Nasce a San Pietro Vernotico, il 12 febbraio 1981. Dopo aver concluso gli studi artistici si avvicina alla fotografia finché, dopo i primi due anni di pubblicazioni su riviste del settore, inizia ad affiancare alla produzione digitale l’attività su pellicola istantanea (Polaroid) che diventa la sua produzione principale. Nel 2018 inizia (e continua tutt’ora) a collaborare con Polaroid per la realizzazione di foto per le loro campagne pubblicitarie. Nel 2021 pubblica il su primo libro Aphasìa, seguito due anni dopo dalla seconda pubblicazione Bonaccia.

Le sue foto affrontano in particolar modo i temi dell’esplorazione del paesaggio, dell’assenza e dell’inconscio, cercando di farli convergere insieme in un comune punto d’incontro. Vive e lavora a Lecce.