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Other Identity #157, altre forme di identità culturali e pubbliche: Valentina Lari
Fotografia
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Valentina Lari.
Other Identity: Valentina Lari
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Innanzi tutto bisognerebbe prendere in considerazione la definizione di “artista”, parola che non amo particolarmente in quanto oggigiorno sembra indicare sempre di più uno “status” sociale più che una necessità esistenziale. Un “artista” ha la necessità di creare indipendentemente dalle circostanze in cui si trova, siano esse favorevoli o sfavorevoli alla sua produzione artistica– quindi, personalmente, non parlerei mai di “spettacolarizzazione” nell’ ambito di ciò che io considero vera arte, bensì esclusivamente di “rappresentazione.”
La rappresentazione di ogni individuo credo che vada pari passo con esigenze, le paure e il contesto emotivo legate all’individuo stesso nel momento in cui opera. Antonin Artaud ci ha regalato una bellissima e dolorosa citazione al riguardo: Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non, di fatto, per uscire dall’inferno [cit. da Van Gogh le suicidé de la société, 1947].
Nel mio lavoro, soprattutto quello legato al concetto di “identità” io cerco di rappresentare il mio stato emotivo attraverso l’uso di autoritratti, sia in ambito filmico che fotografico. Nel mio caso, spesso pubblico e privato si sovrappongono, nel senso che l’immagine di me stessa che viene proposta è spesso realizzata in un contesto privato. Non soltanto perché mostro il mio corpo e la mia fragilità, ma perché le fotografie vengono spesso scattate in spazi personali (ad esempio, nelle varie case in cui ho abitato) e quindi mostrano anche oggetti, persone, indumenti, animali e artefatti legati alla mia vita privata».

Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Nonostante mi auguro che l’identità artistica sia scevra dal concetto di “genere” mi ritengo molto legata all’universo femminile. Infatti, pur affrontando tematiche universali nel mio lavoro – come la morte, la decadenza, la memoria, e l’identità appunto- il modo in cui esse vengono rappresentate sicuramente viene influenzato dal fatto di essere una donna – un’artista donna – e da ciò che questo comporta nel mondo contemporaneo. E dico questo con orgoglio e tranquillità, senza vittimismo o strumentalizzazione».

Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Il problema per me non risiede nel modo in cui la mia persona appare agli occhi altrui ma nel modo in cui il messaggio che voglio trasmettere viene comunicato. Il mio compito, se vogliamo, è di riuscire a proporre tematiche controverse e difficili mantenendo un codice etico senza necessariamente compromettere la mia arte. Non credo di riuscirci sempre o pienamente ma sicuramente il mio intento e ‘quello. Arte è comunicazione, quindi è necessario proporla al pubblico, alla società in cui viviamo – si deve instaurare un dialogo tra un’opera e il suo fruitore, altrimenti diventa pura masturbazione intellettuale. Ritengo che sia fondamentale che un artista sia rispettoso con il suo pubblico, sotto ogni aspetto, e nello stesso tempo sia scevro dalla paura di essere costantemente giudicato. Osare, sfidare, non significa necessariamente offendere. A mio avviso, exploitation, rimane sempre una brutta parola, anche in un contesto puramente artistico».

Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«La questione è controversa perché ci sono degli “artisti” che copiano spudoratamente e si appropriano di idee altrui, creando un’opera vuota, senza spessore già per questo non parlerei più di artista in senso stretto ma di un personaggio a cui piace giocare a fare l’artista per lo status, appunto, a cui il termine è ormai spesso associato.
Le mie parole possono sembrare amare e arroganti, ma in realtà io provo molta tristezza quando vengono esaltate creazioni di artisti labili, improvvisati e astuti – si svalorizza il potere e il valore di qualsiasi forma d’arte. L’arte è necessaria per capire tutti gli strati di cui è composta la natura umana e dovrebbe essere rispettata, non svalutata.
Fortunatamente, poi ci sono altri artisti che pur essendo profondamente ispirati dall’arte altrui (immagini, quadri, libri, storie, etc.) invece creano cose meravigliose e importanti. Con la loro arte rendono omaggio piuttosto che plagiare. Mostrano degli aspetti del loro percorso artistico che ovviamente è stato segnato da chi è passato prima – o accanto- e ne sono grati e consapevoli. È naturale riproporre dei tratti, delle tematiche, delle tecniche che ci hanno ispirato durante la vita. Ma se il nostro sguardo è onesto nei confronti del mondo e di noi stessi credo sia possibile ispirarsi a chiunque, a qualsiasi cosa, e rimanere sempre originali».

ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Io sono Valentina e in primis sono una “persona” agli occhi di chiunque mi guarda – la mia preoccupazione semmai risiede in ciò che io scelgo di mostrare al mondo e in che modo lo faccio. Questo sia come individuo che come artista.
Se scelgo di fotografare me stessa come una creatura nuda e mostruosa propongo semplicemente una chiave di lettura – scelgo di tradurre visivamente delle inquietudini personali, ma questo non significa necessariamente che chi osserva quell’immagine riesca ad avere accesso a ciò che potremmo definire il mio intimo, il mio vero “Io”. Lo spettatore ne assorbe solo una parte, ed è libero comunque ti tirare le sue conclusioni.
Anche perché per me arte significa effettuare una ricerca su me stessa, quindi il tutto avviene spesso in modo subconscio.
Inoltre, si tratta di un processo in continuo mutamento per cui la rappresentazione di me stessa rivela esclusivamente il mio stato psicologico ed emotivo nel momento esatto in cui si apre e si chiude l’otturatore della macchina fotografica. Lo stesso per quanto riguarda il film o la pittura.
Sicuramente però il fatto di mostrarsi vulnerabili al pubblico in qualche modo crea un legame con l’osservatore – indipendentemente che le paure e le esperienze siano le stesse oppure no».

Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Onestamente non saprei definire quale identità mi appartiene o – se vogliamo essere più precisi – alla quale io stessa appartengo. Siamo nati in un determinato corpo e in un determinato contesto culturale non per scelta – fortunatamente l’arte può divenire una bellissima forma di liberazione da strutture che possono stare decisamente strette…».
Biografia
Firenze, 1975. Dopo la laurea al DAMS di Bologna, ha ottenuto un Master in Film Studies al Goldsmiths College di Londra, dove ha vissuto dal 2002 al 2016. Attualmente vive a Gand, in Belgio.
Il suo lavoro visivo si concentra principalmente sulle tematiche legate alla morte, all’identità e la memoria. Fotografa autodidatta, lavora esclusivamente in analogico. Come film maker sperimentale invece spesso integra pellicola e digitale, esplorando le varie possibilità offerte dal mixed media. Espone regolarmente in Belgio e a livello internazionale.