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Other Identity #158, altre forme di identità culturali e pubbliche: Fleba Fenicio
Fotografia
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Fleba Fenicio.

Other Identity: Fleba Fenicio
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Faccio molta fatica a dirmi artista. L’arte, e con essa la fotografia, è indagine dell’umano, ma si tratta di una riflessione o di un risultato a posteriori. La motivazione della mia attività artistica non è intellettuale, ma sociale, ed erotica, nel senso greco della parola: ἔρως per i greci è la rappresentazione del desiderio in senso lato, come motore del mondo. Anche in fotografia il motore è il desiderio per l’altro, per il vedere l’altro, come se attraverso gli occhi e l’obiettivo posati su un corpo si potesse mangiare la verità dell’Altro, conoscerlo in modi misteriosi che trascendono la parola. E spesso è proprio così.
La fase dell’incontro è dunque il centro della mia esperienza artistica, che ha il suo apice nell’incontro con i soggetti, nello scambio, nella conoscenza dell’altro. Io fotografo solo persone che conosco, e conosco le persone fotografandole. Come ho scritto nella tagline del mio profilo online io fotografo solo “persone senza vestiti”. La nudità del soggetto fotografato è sempre parte dei miei progetti, anche quando non è esplicitamente esibita nelle immagini che vengono prodotte, ed è sia concreta che metaforica. Essa è parte del processo di disvelamento, della negoziazione della fiducia tra chi fotografa e chi viene fotografato: consente alle persone di dismettere in brevissimo tempo le maschere più superficiali. Rende il mio lavoro molto più semplice.
Lo stesso avviene nel progetto di fotografie di coppie che porto avanti con la mia compagna, in cui noi, coppia, organizziamo degli incontri in cui fotografiamo altre coppie (nude, ovviamente). Spero sia superfluo specificare che noi invece rimaniamo sempre vestiti. Spesso c’è un cortocircuito su questo, le persone fanno molta fatica a rompere l’associazione pavloviana di nudità e sesso. Il sesso in tutto ciò non c’entra nulla.
Poi in solitudine, durante la fase di selezione, quando 1000 scatti diventano 10 fotografie, avviene una trasmutazione, una trasfigurazione: le “persone senza vestiti” diventano divinità, archetipi, stelle del cinema, bellezze impossibili, pur conservando la propria peculiare umanità. In questa fase entra in gioco una sensibilità estetica, che però per me costituisce un aspetto superficiale del discorso».

Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«La mia attività “artistica” si svolge in modo squisitamente contemporaneo, ovvero su Instagram (lol). Instagram è una vetrina limitata, sia in ciò che si può concretamente far vedere, sia dal punto di vista delle possibilità effettive di raggiungere il pubblico. Qui si aprirebbe un discorso dolente sulla censura dell’arte sui social, in conformità alla morale sessuofobica americana, che preferirei rimandare.
La mia identità artistica si sovrappone a quella del mio nickname, e prende vita da essa. Fleba il Fenicio è un personaggio della Wasteland di T.S. Eliot, il marinaio fenicio annegato che dimentica il grido dei gabbiani, e il rimpianto e la perdita. Rappresenta un personale cupio dissolvi, il desiderio di non esserci, di tornare a far parte del mare, in forma molecolare. Si tratta di un’identità artistica che sottolinea il ruolo secondario dell’artista nel processo creativo.
Le mie fotografie sono solo la testimonianza di un incontro, dell’epifania di un incontro tra due (o più) umani. Io non faccio nulla se non scattare. Alcune delle fotografie pubblicate qui sono state scelte dai soggetti ritratti, non da me. La partecipazione dei soggetti ritratti alla scelta e alla selezione finale degli scatti è parte del mio processo artistico, che appunto non è dedicato alla produzione di immagini per un gusto estetico o un intento narrativo, ma piuttosto alla testimonianza di un particolare incontro umano, e la sua trasfigurazione in immagini».

Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Zero. È bello essere apprezzati solo nella misura in cui l’apprezzamento porta a nuove conoscenze, nuovi incontri fotografici, nuovi corpi, nuovi umani da scoprire.
La maschera del personaggio pubblico è un layer di mediazione tra il sé e il mondo che è diventato molto permeabile negli ultimi anni, ma in compenso molto più democratico: abbiamo imparato tutti ad avere una maschera pubblica costantemente sottoposta a curatela. Questo ci confonde le idee sul piano intimo, complica la negoziazione delle identità.
Ad esempio le mie fotografie, che cercano di essere sempre intime e rivelatrici, spesso vanno a confliggere con le maschere pubbliche dei miei soggetti, e questo crea dei cortocircuiti, perché le loro sfere reagiscono con stupore a vederle trasfigurate, da persone “normali” ad esseri angelici e impossibili, con in mezzo solo una lente di vetro e un po’ di luce».

Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Anche qui, la negoziazione dell’identità nel panorama artistico e anche più semplicemente sociale passa spesso attraverso un processo frattale di continua ridefinizione, continua ricerca di maggiore precisione della rappresentazione di se stessi all’interno di una nicchia di interesse sempre più minuscola. Vedo che la specializzazione, anche in ambito artistico, è sempre più gettonata. Spesso lo strumento della citazione è parte integrante di questa definizione di sé. Si pensa che da questa specializzazione passi la definizione di una propria voce univoca, o detta in modo banale, di uno “stile”. Sicuramente c’è un’unità estetica in quello che faccio, ma non mi piace l’idea di essere incasellato.
Non mi voglio rappresentare in relazione ad altro. La citazione è uno strumento affascinante, (il mio stesso nome d’arte è una citazione) e spesso la utilizzo negli apparati secondari, ad esempio associando musiche alle mie immagini, su Instagram, oppure in piccoli cenni nelle didascalie. Questo però serve solo ad aprire universi di significato, non certo a definire me o le “opere”».

ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«In una parola No. Tra l’altro qui andiamo pericolosamente vicini alla domanda “che cos’è l’arte” e “chi è l’artista”, che sono domande impossibili, o quasi. Io non mi definisco abitualmente artista anche perché non sono inserito nel “mondo” dell’arte, perché faccio un altro lavoro, e per quanto la mia sensibilità possa essere di tipo artistico, in campo fotografico, ritengo che in quello che faccio l’intento artistico sia secondario.
Come dicevo, a me interessa il processo, l’incontro fotografico, mentre il prodotto artistico, ciò che il pubblico vede, sono solo fotografie, simulacri, blande rappresentazioni di quell’incontro. Si potrebbe dire che sono un artista che tiene per sé le proprie vere opere, che sono gli incontri, e non pubblica se non le didascalie di questi incontri, che sono le immagini».

Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Nel corso della mia vita ho voluto essere molte cose che non sono stato mai. Lo scienziato, il letterato, il romanziere, il poeta, il critico musicale, lo studioso di antropologia, il linguista. Il luminare della medicina. C’è una citazione che ho portato spesso con me, di R.Heinlein, che è un elenco di tutte le cose disparate che un umano dovrebbe saper fare, per dirsi veramente tale.
“A human being should be able to change a diaper, plan an invasion, butcher a hog, conn a ship, design a building, write a sonnet, balance accounts, build a wall, set a bone, comfort the dying, take orders, give orders, cooperate, act alone, solve equations, analyze a new problem, pitch manure, program a computer, cook a tasty meal, fight efficiently, die gallantly. Specialization is for insects”.
Si conclude in modo apodittico: “Specialization is for insects”. Ecco, in ambito intellettuale io avrei voluto assumere l’identità leonardesca medicea dell’Uomo rinascimentale, colto e prolifico in ogni ambito dello scibile. Non avrebbe guastato inserirci anche qualche tratto del Principe di Machiavelli. I risultati non sono certo all’altezza di queste aspettative o di questi modelli. Ma ci accontentiamo :-D».
Biografia
Giovanni Agnes, presente su Instagram come @Flebafenicio, è nato a Torino nel 1982. Dopo studi universitari in ambito umanistico, si allontana dalla riflessione sul testo e per iniziare un percorso professionale nell’ambito della grafica pubblicitaria ed editoriale, a tutt’oggi in corso, rigorosamente in proprio o in associazione con altri spericolati dotati di partita IVA, ma mai, per nessun motivo al mondo, alle dipendenze.
Pur non essendosi mai definito artista, giunge all’arte attraverso la fotografia, che è per lui uno strumento, nel senso pratico e letterale della parola, attraverso cui manipolare, costruire, generare realtà, generare incontro, testimoniare l’umano. Opera in solitaria, quando fotografa persone singole, e in coppia con la sua compagna Alessandra Mancino (@alessandramarialuigia), quando fotografa coppie, per il suo Progetto Couples.
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