26 gennaio 2019

Il Sud è un’architettura alla Fondation Cartier

 

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La Fondation Cartier per l’arte contemporanea, con la mostra “Géométries Sud, du Mexique à la Terre de feu” fino al 24 febbraio, continuando la tradizione delle grandi mostre a tema, espone la ricchezza e la varietà di modelli, colori e figure dell’arte latino-americana. Dall’arte popolare all’arte astratta, dalla ceramica alla pittura del corpo, scultura, architettura, tessuti e lavori in vimini, questa mostra riunisce circa 250 opere di oltre 70 artisti esplorando le molteplici forme dell’astrazione geometrica in America Latina, sia che trovino le loro fonti nell’arte pre-colombiana, nelle avanguardie europee o nelle culture indigene ancora vive oggi: mostra sull’astrazione e sull’architettura, una proposta per leggere la struttura che sottende la forma quasi a far dire che la geometria è una via che raggiunge l’universalità. 
Al piano terra l’ingresso separa i due grandi saloni vetrati che ospitano due mondi estremi. L’architetto boliviano Freddy Mamani Silvestre, di origine aymara come l’attuale presidente Evo Morales, per l’occasione ha trasformato l’ala sud in una gigantesca sala da ballo, uno stravagante oggetto a metà strada tra un vernacolare postmodernismo e una citazione del decorated shed di Robert Venturi. Un’esemplificazione della sua produzione iniziata a El Alto, a 4000 metri sul livello del mare nel cuore delle Ande boliviane, dove per una dozzina di anni ha costruito edifici molto originali. «Questi edifici – dice Mamani – sono costruiti in questo modo perché siano auto-sostenibili, vale a dire che producono denaro». 
La loro tipologia segue infatti sempre la stessa regola: al piano terra i negozi, al livello superiore le abitazioni e tra i due, lo spazio di punta dell’edificio, la sala per le feste tradizionali il salón de eventos perché come afferma nel lungo filmato, la stragrande maggioranza dei nostri cittadini adora il folklore. A El Alto ha già costruito, lavorando lui stesso con gli operai, più di venti di questi salón e più di cento in altre grandi città del paese che hanno modificato l’immagine urbana degli insediamenti spontanei da anonime strade di periferia a vivaci cortine di edifici riconoscibili, localmente connotati. Il kitsch local delle facciate esterne si ritrova nell’interno definito da un cromatismo spettacolare che proviene dai tessuti andini e, in particolare, dalle gonne indossate dalle cholas, le donne boliviane. Le forme geometriche sono ispirate invece alle rovine di Tiahuanaco il centro della omonima civiltà precolombiana. Quest’esuberanza dovrebbe quindi essere letta non come formalismo individualista ma piuttosto come riflesso sgargiante del contesto culturale in cui si è formato.
Nell’altra ala, contraltare del vitalismo andino, l’opera monumentale commissionata dalla fondazione ai paraguensi Solano Benitez e Gloria Cabral che, dopo il premio alla biennale di Venezia del 2016, ritornano in Europa con un sapiente gioco di equilibrio di 144 pannelli modulari fabbricati a piè d’opera con mattoni frantumati e cemento che formano un’imponente parete traforata; e a fianco un gruppo di 23 sculture di fili intrecciati di Gego (Gertrud Louise Goldschmidt 1912-1994 tedesca rifugiatasi in Venezuela nel ’34). Le sue opere, Reticoli, Onde, Tronchi, Disegni senza carta, esposte tra gli altri nei musei della venezuelana Fundación Museos Nacionales, al MoMA, al Museum of Fine Arts di Houston e nelle varie sedi della D.O.P. Collection, rivelano in questa selezione della prima mostra europea di rilievo le infinite possibilità della linea nello spazio tridimensionale: Gego tesse, piega e torce il filo di acciaio o di alluminio, sfruttando la sua flessibilità per creare forme irregolari che integrano la trasparenza in elemento scultoreo.
Lasciate le grandi vetrate e le opere spaziali, al livello inferiore più di 220 opere provenienti da epoche e culture diverse vengono messe in relazione con l’arte moderna e contemporanea: l’opera costruttivista di Joaquín Torres García (1874-1949), i dipinti dell’artista uruguaiano Carmelo Arden Quin (1913-2010), motore del Movimento Madí, insieme alle sculture della brasiliana Lygia Clark (1920-1988), alle fotografie del messicano Lázaro Blanco (1938) e ai dipinti dell’argentino Guillermo Kuitca (1961). Questa mostra mette in luce anche il lavoro di artisti meno conosciuti, presentando, fra le tante, le grandi composizioni di un minimalismo astratto della cubana Carmen Herrera (1915), le facciate colorate delle case nel Brasile nord-orientale nelle fotografie di Anna Mariani (1935) e i geometrici paesaggi quasi astratti di Alfredo Volpi (1896-1988) italiano trapiantato come Guido Boggiani (1861 1902) pittore ed etnologo, Paolo Gasparini (1934) fotografo e Ana Sacerdote (1925) precorritrice della video arte. Ma forse la sintesi del senso della mostra è nella foto del fotografo messicano Armando Salas Portugal (1916-1995), Torres de satellite (Città del Messico 1958) la scultura/architettura dell’architetto messicano Luis Barragan (1902-1988) e dell’artista polacco Mathias Goeritz (1915-1990): cinque diverse torri alte fino a 50 metri, volumi pieni, stereometrici dai colori primari, una scultura astratta evocazione di simbologie antiche e memoria di architettura. (Giancarlo Ferulano)

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