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A Roma ha aperto la 18esima Quadriennale d’arte. La raccontano i progettisti
Mostre
Raramente si guarda alle grandi mostre attraverso i loro allestimenti. Eppure, la relazione tra il progetto degli spazi museali, le opere esposte e i curatori è una chiave di lettura importante per comprendere la complessità della mostra stessa e, spesso, il suo successo. Un buon progetto allestitivo è una tessitura sottile capace di guidare con naturalezza i visitatori, legare tra di loro i lavori degli artisti selezionati e rafforzare la narrazione curatoriale perché sia ben accolta dallo spazio preesistente. È il caso di Fantastica, la nuova mostra della Quadriennale di Roma, a partire dal compito, non agevole, che il presidente Luca Beatrice aveva dato allo studio torinese BRH+, ovvero Marco Rainò e Barbara Brondi, di legare insieme il lavoro di cinque differenti curatori al piano terra e della mostra storica sulla Quadriennale del 1936 al livello superiore del Palazzo delle Esposizioni, uno degli edifici più rigidi e monumentali della Roma del Novecento.

La sfida è stata raccolta da progettisti che negli ultimi vent’anni hanno dimostrato solidità professionale e, soprattutto, un’interessante cifra autoriale grazie a una serie di allestimenti in Italia e all’estero, sempre nell’ambito dell’arte e del design contemporaneo, uniti a una naturale dimestichezza nel dialogo con i curatori e gli artisti. Un bravo progettista non interpreta solamente lo spazio e le indicazioni del curatore, ma deve dimostrare una conoscenza della scena artistica e una sensibilità che gli consenta di essere un alleato prezioso del curatore per la realizzazione della mostra.

Tanti i temi da prendere in considerazione: cinque curatori per uno spazio rigidamente simmetrico che ne chiedeva la reinvenzione e una fluidità di relazione delle diverse sezioni, segnate da alcuni specifici elementi architettonici che marcassero le soglie di passaggio e tema; il dialogo con cinque personalità curatoriali significative, il coinvolgimento di 60 artiste e artisti e un allestimento che dimostrasse personalità e aumentasse il carattere di originalità della mostra stessa. Con la drammatica scomparsa di Luca Beatrice questo compito si è ulteriormente rafforzato come elemento connettore, reale e immateriale, di un progetto che ha trovato un compimento convincente che vi raccontiamo attraverso un dialogo inedito con lo studio BRH+.

Il vostro progetto è frutto di un dialogo intenso con i curatori e gli artisti che è parte della vostra filosofia di lavoro. Ma, prima di tutto, nasce dal confronto con il presidente Luca Beatrice. Cosa vi chiese allora di fare per la 18esima edizione della Quadriennale d’arte? Quali erano gli obiettivi del lavoro di allestimento?
«Nella visione di Luca Beatrice la Quadriennale avrebbe dovuto essere densa, intensa, estroversa, molteplice; anche per questo aveva scelto un titolo schietto, assertivo e vibrante come Fantastica. Le proposte dei curatori e degli artisti protagonisti di questo importante evento dedicato all’arte italiana contemporanea avrebbero dovuto essere presentate mediante un sistema di allestimento modulato per accogliere le loro – anche profonde – differenze d’espressione, organizzato per dare origine a singoli spazi con forti connotazioni specifiche, poi armonizzati in un continuum d’insieme dotato di una propria riconoscibilità e identità. Oltre alla necessità di intendere il display allestitivo come un dispositivo di corretta presentazione delle opere, dei loro contenuti e delle loro narrazioni, Luca insisteva molto sulla possibilità di generare una proposta che potesse ambire ad avere una propria autonomia espressiva».
Il palazzo delle Esposizioni di Pio Piacentini è un oggetto complesso da affrontare con un allestimento. Nell’ultimo secolo è stato inscatolato, integrato, ripensato dall’interno, ma la sua monumentalità e la sua struttura così rigida e simmetrica è un elemento di complessità importante per chi affronta una grande mostra di arte contemporanea. Come è stato il dialogo con questo edificio, prima ancora di cominciare a pensare all’allestimento?
«Il lavoro di progettazione dell’allestimento per le due mostre – tanto per Fantastica al primo livello che per l’omaggio storico I giovani e i maestri. La Quadriennale del 1935 al secondo – è stato elaborato nel tentativo di riferire ogni nuova organizzazione spaziale al contesto dell’ambiente, cercando di trovare un codice di relazione lineare e sintetico con l’architettura del palazzo e con i suoi elementi d’ordine gigante. Mettere in proporzione, organizzare i traguardi, modulare i flussi creando ambiti di successiva, potenziale sorpresa; abbiamo disegnato i vuoti prima ancora dei pieni».

Sei curatori per altrettante mostre. Cinque che compongono “Fantastica” e che occupano il piano d’ingresso a primo livello e una, storica, dedicata alla Quadriennale del 1935, curata da Walter Guadagnini e posta al secondo livello. Come avete strutturato le diverse mostre e come avete risolto il problema di cinque progetti insieme in uno spazio rigidamente simmetrico?
«Per Fantastica abbiamo suddiviso lo spazio espositivo tentando di indebolire le rigidità di percorso imposte dalla planimetria di Piacentini, proponendo delle ipotesi d’integrazione e di relazione diretta tra ambienti che sono abitualmente separati da corridoi di transito. Nella sezione curata da Francesco Bonami, ad esempio, la rotonda centrale si coniuga con alcune porzioni delle grandi sale vicine, secondo un’idea di progetto che tenta – qui come negli altri casi – di rompere qualsiasi schematicità distributiva, fluidificare le connessioni tra i distinti volumi e organizzare traiettorie di visita alternative tra loro, offrendo nel contempo la possibilità di avere punti di osservazione spesso variabili. Per l’omaggio storico, il percorso è unico, anulare lungo il ballatoio che affaccia sulla rotonda al piano inferiore, progettato per presentare i contenuti della mostra attraverso una sequenza di progressivo disvelamento delle opere. In entrambi i casi, le scelte formali con cui abbiamo definito le diverse frazioni di spazio sono caratterizzate da geometrie nette, lineari, da un disegno che intendevamo essere il più limpido e marcato possibile».

Come si è sviluppato il lavoro e la collaborazione con i cinque curatori di “Fantastica”, soprattutto in rapporto al fatto che sono mostre con una specifica personalità sotto il cappello di un unico grande tema da interpretare?
«Il dialogo con i curatori è stato continuo: attraverso la loro mediazione ci siamo confrontati con gli artisti sulle ragioni e le esigenze espressive di ciascuna opera.
Il tema del “guardare e traguardare” di cui parlavamo è marcato da alcune “soglie”, da strutture a grande scala – di alluminio e tessuto – che segnalano i passaggi tra le diverse sezioni curatoriali, presenze solide e allo stesso tempo eteree che orientano la visita e propongono una scansione ritmica “per episodi” del racconto di Fantastica.
Trasparenti o opache in ragione del punto di vista dell’osservatore, queste membrane-diaframma traducono l’idea di una simultanea possibilità di significati: unire mentre si separa, connettere nell’istante in cui si sconnette, indizio metaforico di come la specifica, isolata indagine curatoriale sia al contempo parte di un’unica, grande riflessione sull’arte italiana del primo quarto del nuovo secolo che definisce l’intera mostra».

Come avete, invece, lavorato con Walter Guadagnini rispetto alla mostra storica del secondo livello? Che tipo di materiali saranno esposti e come sono stati organizzati?
«L’omaggio storico negli ambienti a livello superiore risponde a logiche di progetto del tutto diverse da quelle adottate al piano inferiore. La colossale mostra del 1935 che, all’epoca, rappresentò il panorama dell’arte italiana con circa 1800 opere di 700 artisti, è proposta attraverso una selezione ragionata di capolavori e tradotta mediante un allestimento concretamente estroverso, che interpreta i colori di riferimento delle architetture di quella edizione ed espone le opere – dipinti e sculture – e i tanti documenti d’archivio attraverso una progressione lineare potenziata da un carosello iconografico di grande formato, una sorta di fregio fotografico continuo di forte impatto visivo. Il progetto d’allestimento e quello grafico hanno qui un punto di contatto pieno, un’integrazione assoluta».
Questo articolo è pubblicato sul numero 129 di exibart on paper. Scarica la tua copia qui per leggere l’intervista integrale















