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È intitolata Sonnet V la prima mostra personale a Londra di Gilbert Halaby, artista libanese-italiano con base a Roma, presentata da Artbooth Abu Dhabi in collaborazione con Marie Jose Gallery. Un titolo che evoca Shakespeare e che, come nei versi dell’immortale bardo, racchiude la tensione tra caducità e permanenza, tra erosione del tempo e aspirazione all’eterno. Proprio in questa dialettica si muove la pittura di Halaby, che trasforma la natura, le sue ombre e la sua luce, nel linguaggio simbolico di una biografia trasfigurata.
Cresciuto tra gli ulivi del Libano settentrionale e da due decenni residente in Italia, l’artista trova nella Tuscia etrusca lo spazio ideale per il suo alfabeto visivo: un paesaggio arcaico ma anche presente, dove i cicli stagionali diventano parabole dell’esistenza. Le opere in mostra, articolate in quattro serie e coronate da un tondo monumentale, compongono un ciclo allegorico che intreccia poesia, mitologia, religione e storia dell’arte.

Stagioni come divinità, ulivi come madri: la mostra
La prima serie, composta da quattro tondi di un metro di diametro, assegna ai cicli dell’anno personificazioni sorprendenti: Bacchus è l’Estate, Rilke l’Autunno, Rimbaud la Primavera, e San Sebastiano l’Inverno. È un gioco colto e ironico, che mescola simbologie religiose e poetiche in una reinvenzione del tempo naturale come tempo umano. A questi si affianca un ciclo di quattro tele quadrate di grandi dimensioni (150×150 cm), dedicate agli uliveti di Halaby nella campagna laziale: visioni sospese, in cui la terra si fa palinsesto di civiltà stratificate.

Più intime sono le opere rettangolari (60×50 cm), in cui i tronchi d’ulivo si trasformano in sibille: madri arcaiche, custodi del tempo, che annunciano le stagioni come profezie naturali. Infine, una serie di quattro piccoli dipinti (40×40 cm) compone una sorta di poema visivo: un paesaggio, una collina, un albero d’ulivo che mutano colore e forma, come le stagioni che si rincorrono in un ciclo senza fine. «Ho cercato di articolare la presenza dell’ombra nella visione iniziale della vita, e la scoperta della luce più potente nelle sue fasi finali», scrive Halaby.

A chiudere il percorso, una grande tela rotonda di due metri raffigura l’artista giovane, con un sonetto stretto tra le mani. È il punto di fuga di un racconto personale che, pur restando enigmatico, si offre al pubblico con intensità emotiva. «Vedere i dipinti di Halaby è leggere un’autobiografia in una lingua che solo lui sa decifrare», scrive Roxane Zand, specialista d’arte mediorientale, nel catalogo della mostra: «Ma non serve conoscere la grammatica per sentirne il peso».

Gilbert Halaby, una biografia atipica
Gilbert Halaby è figura atipica nel panorama contemporaneo. Nato e cresciuto in Libano, si trasferisce a Roma nel 2003, dove apre un atelier nei pressi del Pantheon, poi spostato in via di Monserrato, divenuto negli anni un luogo a metà tra boutique artigianale e salotto culturale. Solo negli ultimi sei anni ha dedicato quotidianamente il proprio tempo alla pittura, trovando in essa una voce autonoma e potente. Le sue opere fanno oggi parte di collezioni pubbliche e private, dal Kinda Foundation in Arabia Saudita alla collezione presidenziale libanese.

Un ponte tra mondi: Artbooth e Marie Jose Gallery
La mostra è frutto della collaborazione tra due realtà indipendenti: Artbooth Gallery, fondata ad Abu Dhabi nel 2019 da Roger El Khoury come piattaforma nomade e transnazionale, e Marie Jose Gallery di Marie Jose Honein, sorta a Londra in risposta alla crisi economica e sociale esplosa in Libano nel 2020. Due spazi che condividono una visione inclusiva e transfrontaliera dell’arte contemporanea e che in Halaby trovano un interprete ideale.














