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Berthe Weill. A Parigi tutta la storia della gallerista che inventò il moderno
Mostre
Al Musée de l’Orangerie, con le grandi finestre che affacciano sui Giardini delle Tuileries e le Ninfee di Monet, una mostra riporta al centro della scena Berthe Weill (1865–1951), figura cruciale per la nascita dell’arte moderna, eppure dimenticata per decenni. Piccola, energica, implacabile, attraversava la Parigi di inizio secolo, decisa ad entrare nel mondo dell’arte senza padrini né mezze misure. Nel 1901 aprì la sua galleria in rue Victor-Massé, nel cuore di Montmartre, quando il quartiere era ancora segnato dalla lotta alla sopravvivenza.

Fu la prima donna a dirigere una galleria a Parigi e la prima a vendere un quadro di Pablo Picasso (1881–1973), allora ventenne e sconosciuto. Espose i Fauves, sostenendo Henri Matisse (1869–1954), André Derain (1880–1954) e Raoul Dufy (1877–1953), quando i collezionisti li consideravano scandalosi, rozzi, “coloristi da circo”. Diede spazio a Maurice Utrillo (1883–1955), che dipingeva diviso tra alcolismo e squilibri mentali, e a Suzanne Valadon (1865–1938), la modella diventata pittrice, madre di Utrillo e figura ribelle come lei. Weill riconobbe negli artisti un’urgenza che le somigliava, la necessità di creare, non per successo ma per sopravvivenza.

Nella sua minuscola e pienissima galleria i muri erano tappezzati di quadri a credito, le discussioni duravano ore, gli amici prestavano sedie e cornici. Weill non comprava per rivendere ma ascoltava, consigliava, e difendeva le opere, l’aspetto più rivoluzionario, poiché fece del mestiere di mercante un gesto di partecipazione e un atto di responsabilità. La sua idea di commercio nasceva dal contatto diretto, dal rischio, dalla curiosità. Molti artisti ricordavano che da lei si poteva parlare, discutere, persino mangiare un piatto caldo se si era in difficoltà. Era un luogo dove l’arte non era ancora un’industria, ma una necessità quotidiana. Figlia di commercianti di origini ebraiche alsaziane, crebbe senza privilegi. Lavorò da giovane in un negozio di antiquariato, imparando a riconoscere la qualità e la falsificazione, il valore e l’inganno. Lì affinò anche l’occhio e la diffidenza. Entrò nel mondo dell’arte come autodidatta, spinta da curiosità e orgoglio. Non si sposò mai, coltivò piuttosto affetti riservati, spesso brevi e sacrificati alla galleria.

Chi la conosceva parlava di una donna rapida, ironica, con una voce roca e tagliente, abile nel passare in un istante dalla tenerezza alla collera. Nel 1933 pubblicò Mémoire d’une galeriste, un testo asciutto e impietoso dove ripercorreva trent’anni di lavoro, tradimenti, gioie e dolori. Vi raccontò la Parigi che cambiava, gli artisti che diventavano celebrità e gli amici che scomparivano. Durante l’occupazione nazista fu costretta a chiudere e a nascondersi, vendette gli ultimi quadri per sopravvivere. Dopo la guerra riaprì per poco in rue de Téhéran, ormai quasi cieca. Morì nel 1951, povera, mentre i nomi che aveva sostenuto valevano fortune.

In mostra, lettere, fotografie e opere restituirono la trama di quella vita, la cronaca di un sacco di scoperte, e la storia di una lunga resistenza contro chi la ostacolava. Weill non inventò un mercato ma un metodo, fidarsi dell’intuizione, anche quando tutti ne ridevano. Berthe Weill non fu un’eroina dimenticata, ma una pietra fondativa dell’arte moderna, capace di capire che a volte bastano una stanza, quattro pareti e un po’ di fede per cambiare il destino degli eventi.













