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Cancellare il Vesuvio, riscrivere la città: la nuova geografia di Nicola Vincenzo Piscopo
Mostre
Theodor Adorno, in una visita alle opere della collezione del Museo Valéry-Proust, afferma: «La loro conservazione è dovuta più al rispetto storico che ai bisogni del presente». Oggi, i musei di tutto il mondo sembrano voler dimostrare il contrario: si sforzano di diventare piattaforme dinamiche e spazi di scambio sociale. In questo processo, le collezioni museali stanno diventando materiali vivi, elementi malleabili da utilizzare per superare l’idea del museo come “mausoleo” e per trovare un equilibrio tra «La conservazione del passato e le esigenze del presente».
L’arte contemporanea gioca un ruolo centrale in questa trasformazione, connettendo il passato modernista con il presente postmoderno attraverso azioni concettuali. Nei casi migliori, come nell’opera seminale di Fred Wilson Mining the Museum (1992), l’artista riesce a trasformare il museo in un dispositivo critico, capace di analizzare la società attuale e denunciarne le derive.
I musei napoletani hanno una lunga storia di contaminazioni. Basti pensare agli interventi d’arte contemporanea al Museo di Capodimonte, avviati dai direttori Nicola Spinosa e Raffaello Causa e ancora attivi oggi; all’occupazione della Villa Campolieto con la mostra Terrae Motus 1984; o al costante dialogo tra passato e presente al Museo Filangieri.
Più di recente, la mostra Delitto Napoletano curata da Alessandro Calvanese ha attirato la mia attenzione a Napoli. Nicola Vincenzo Piscopo (n. 1990) ha interagito con l’eclettica collezione del Museo Duca di Martina per creare una contro-narrazione pittorica che mette radicalmente in discussione l’iconografia della città, centrata sull’immagine iconica del Vesuvio. La domanda provocatoria è: e se non fosse mai esistito?
È un “delitto” quello ai danni del Formidabil Monte, che Piscopo cancella dalle sue opere disseminate nelle sale del museo in un gioco di mimesi con le collezioni storiche che porta il visitatore a chiedersi: è un’opera antica o contemporanea?

Salendo al piano nobile, l’opera Tempesta nel Golfo di Napoli con naufragio di Salvatore Fergola rielabora il dipinto del 1867 di Salvatore Fergola (conservato alle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo a Palazzo Piacentini), immagine simbolica dei moti politici napoletani raccontati attraverso una tempesta marina. Qui, la cancellazione del Vesuvio priva l’opera del suo legame diretto con il paesaggio e sottolinea la perdita di connessione con l’ambiente circostante. Con la mercificazione del paesaggio napoletano e del paesaggismo, l’immagine del golfo è divenuta onnipresente, stampata su piatti, tazze, teiere e usata come souvenir per turisti e collezionisti. Piscopo continua a riflettere sul valore attuale dell’iconografia napoletana in un’epoca in cui la riproduzione ha reso quel “souvenir” così onnipresente da passare, a volte, inosservato.
È una pittura quasi magrittiana quella di Piscopo, artista napoletano e fondatore di Quartiere Latino, che gioca sull’associazione tra linguaggio e immagine per creare cortocircuiti visivi in cui significato e significante collidono con ironia. Decisamente kitsch, le sue opere sono caratterizzate da una patina pop-surrealista e puntano sulla ripetitività visiva per sottolineare il tema dell’eccesso.

L’opera Nostalgia gioca proprio su questa ambiguità. Si tratta di un’installazione ambientale con proiettore a carosello che mostra ottanta diapositive degli anni ’70, processate e manipolate ripetutamente dall’artista. L’opera genera reminiscenze di una memoria collettiva: scena dopo scena, l’amnesia dell’artista attiva ricordi inautentici e stimola il vagheggiamento di stagioni della città mai vissute.
L’opera più riuscita della mostra è anche la più difficile da individuare. Ed è proprio qui che risiede il suo successo. Installata in una semplice cornice in radica di noce al di sopra di un mobile ligneo con piano marmoreo, Grand Tour, come tutta l’esposizione, nasce da un lavoro di archivio. Piscopo seleziona stampe storiche sulle quali interviene pittoricamente a gouache per eliminare il Vesuvio, caricandole di una familiare equivocità. Con questo gesto concettuale e ironico – le cartoline sono infatti disposte a ricreare la sagoma del Vesuvio – l’artista elegge il mezzo pittorico come prediletto per riflettere sull’aura di autenticità che le stampe continuano a evocare.

La mostra si conclude con Petit Tour. In questa installazione, il paesaggio napoletano viene esaminato come antesignano del moderno souvenir, esplorando la trasformazione culturale della città attraverso lo sguardo dei viaggiatori storici. Una collezione di 365 tele di varie dimensioni e dai colori stroboscopici, disposte come una quadreria ottocentesca – che ricorda i moderni pannelli per calamite – trasforma l’ambiente in una wunderkammer ironica e spiazzante. L’eccesso e l’invadenza visiva richiamano l’ossessione nauseante per la pittura e la bulimia iconografica della nostra epoca. Nell’ultima sala, l’unica presenza del Vesuvio è su una teiera: una veduta notturna del vulcano durante un’eruzione di pomici, datata alla fine del Settecento.

L’intervento di Piscopo propone un’idea di museo come spazio critico e vitale, capace di contrastare la narrazione turistica semplicistica che oggi soffoca l’immaginario visivo di Napoli. In linea con quanto denunciato da Francesco Faenza in Napoli in vetrina, la mostra mette in discussione le logiche della turistificazione intensiva, smontando con ironia l’estetica stereotipata del souvenir e rivelandone la natura ideologica e mercificata. Il museo diventa così un luogo di resistenza simbolica, dove la memoria si fa strumento attivo di interrogazione e riscrittura, più che oggetto da conservare. In questo spiazzamento percettivo si riattiva la funzione critica del museo, che non offre risposte ma genera domande, aprendo varchi nel pensiero attraverso le arti visive.














