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Debuttare a metà carriera. L’artista Chen Xi al MUSEC di Lugano
Mostre
di Luca Avigo
La prima sala di A Rabbit’s Tale, al Musec – Museo delle Culture di Lugano fino al 25 gennaio 2026, accoglie piccoli disegni campestri a penna, una visione urbana espressionista e una tela iperrealista con una tv accesa su un telegiornale. È difficile credere che siano tutte opere di Chen Xi (Xinjiang, 1968): come conciliare la pennellata sregolata e la palette grottesca di Waiting for the bus (1993) con il tratto grafico di Impressions of Xishuangbanna (1986), e ancor più con la fredda precisione di Chinese memories: news broadcast premiere (2008)?

Tale disorientamento è destinato a crescere di sala in sala, dato che A Rabbit’s Tale sembra più una collettiva che una retrospettiva. Si passa da espressionismo e iperrealismo a sculture astratte in alluminio e figurative in legno, da nudi fotorealistici all’indagine sugli oggetti à la Jasper Johns, fino al periodo simbolico dominato dal titolare coniglio, per poi chiudere con collage di pizzi e segnali stradali. È molto da assimilare, il che è forse prevedibile, essendo la prima personale di Chen Xi fuori dalla Cina, che comprime quarant’anni di lavoro in un’unica esposizione.
Ma, a differenza di altre retrospettive, dove emerge un pensiero fondante attraverso similitudini e differenze nel corso degli anni, Chen Xi sembra cambiare radicalmente di periodo in periodo. L’unico filo conduttore è lo sguardo da reporter sul mondo esterno, comune — seppur con approcci opposti — tanto alle scene urbane ricche di dettagli, vicine a Nicole Eisenman, quanto alla resa meccanica e impersonale di immagini dalla memoria collettiva, sulla scia di Gerhard Richter.

Poi, stufa di rappresentare il reale, Chen Xi inizia a interpretarlo metaforicamente: entra in scena la marionetta del coniglio, simbolo di fragilità e adattamento, alter ego dell’uomo contemporaneo. I conigli combattono sullo sfondo di bandiere nazionali, banchettano con specie protette, giacciono nella posa della pietas tra le mani di un androide: abbandonata ogni ambiguità, l’artista commenta l’umanità intera. Con la pandemia, però, il coniglio smette di rappresentare tutti per incarnare il singolo, Chen Xi stessa, che riversa sulla tela le sue ansie e frustrazioni, ritraendo l’animale in isolamento davanti al cellulare.
Col tempo, la sua pittura sembra perdere sicurezza, con i primi scenari urbani che appaiono ben più solidi e meno da amateur dei recenti dipinti “coniglieschi”, dove spruzzi fosforescenti, loghi di brand, citazioni dalla storia dell’arte e titoli melensi sembrano urlare il proprio significato. Forse è un grido di sconforto, o forse vuole solo attirare l’attenzione. Se fosse il secondo caso, ha funzionato: è raro un debutto internazionale a metà carriera.

Parte del pacchetto di presentazione di Chen Xi è il catalogo Skira, che raccoglie testi curatoriali dalle mostre in madrepatria e aiuta a contestualizzare il crescente massimalismo dell’artista, riflesso anche nel modo in cui viene descritta: «I dipinti di Chen Xi traboccano di riflessioni filosofiche sulla vita […] e irradiano pensieri profondi sulla natura umana», scrive Wen Lipeng; sono «uno specchio che riflette i nostri sentimenti complessi, un ritratto della nostra brutale realtà», i cui «colori intensi liberano passioni ardenti e impulsi notturni», scrive l’artista stessa. Se tale enfasi può sembrarci tanto distante dalla nostra cultura quanto curiosa e buffa, altri commenti spiazzano in modo sgradevole, come i ripetuti accenni all’aspetto fisico: «non avrei mai potuto immaginare che uno stile così grezzo potesse provenire da una donna così graziosa» (Jia Fangzhou); «distaccata, talentuosa, bella, ecc. Tutte queste etichette sono accurate, ma in qualche modo lei è più della loro somma. Sebbene […] la sua bellezza sia indubbia quanto il suo talento» (Chua Soo Bin).

A maggior ragione, portare ora la propria arte in un contesto del tutto alieno dev’essere per Chen Xi un’esperienza straniante ma vitale. Se il trapianto attecchirà, resta da vedere quale sarà il suo prossimo mutamento: che sia un ritorno all’indole documentaria, ora che il mondo da osservare e il pubblico a cui parlare sono altri?














