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I segni dell’anima di Antonio Sanfilippo, a Roma
Mostre
di redazione
Antonio Sanfilippo e Carla Accardi: l’avventura di entrambi nel “segno” è, infatti, uno degli episodi artistici più significativi dell’arte italiana della seconda metà del Novecento. Oggi, che non ci sono più, la loro opera è contemplata con la stessa venerazione dei contemporanei, ma con una consapevolezza ulteriore: i vertici raggiunti dalla coppia restano un caso unico e irripetuto.
Curata da Lorenzo ed Enrico Lombardi, e accompagnata da un catalogo con un testo critico di Guglielmo Gigliotti e le testimonianze storiche sul suo operato a firma di Carla Accardi, Lorenzo Canova, Ilaria Dambrosi, Giorgia di Laura, Piero Dorazio e Maurizio Fagiolo dell’Arco, la mostra che inaugura oggi negli spazi della Galleria Lombardi è il primo capitolo di un unico progetto espositivo di un senso della storia che conferisce all’opera complessiva di questa coppia d’arte e di vita (dal fidanzamento nel 1944 alla separazione nel 1964) un valore, per citare le parole dello stesso Sanfilippo, «sublime».

«Noi siamo diversi perché al di sopra di tutte le cose che si vivono materialmente collochiamo la nostra arte sublime», scriveva Sanfilippo a Carla Accardi. Queste parole oggi risuonano attraversando un percorso che raccoglie circa 17 opere su tela e su carta, tra cui alcuni capolavori emblematici del suo percorso artistico, realizzate tra il 1957 e il 1971, anno dopo il quale non dipinse più, sopraffatto da un profondo disagio interiore – morì nel gennaio 1980, in seguito alle complicazioni di un incidente automobilistico.
Sanfilippo però, prima di allora, contribuì in modo decisivo alla trasformazione dell’arte italiana, affermandosi come uno dei maggiori esponenti dell’astrattismo. Nel 1947 fu promotore insieme alla moglie Carla Accardi, e a Ugo Attardi, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli, Giulio Turcato, del Gruppo Forma, sodalizio artistico che promuoveva un linguaggio visivo geometrico e antinaturalistico. Poi, nei primi anni ’50, dal culto della forma passò al culto per il segno, adottato in senso lirico: «Antonio Sanfilippo – secondo Guglielmo Gigliotti in catalogo – non è solo uno dei maggiori pittori astratti della seconda metà del Novecento europeo, è anche uno dei più poetici. Il suo piccolo segno fluttuante, non risponde a suggestioni naturalistiche, è segno dell’anima. Nasce nella sua interiorità come impulso profondo e primordiale, come un alfabeto morse che sgorga dall’inconscio, e come ritmo interno della materia di cui è fatta la realtà. Tutto vibra, pulsa, in un ritmo che scandisce il tempo per definire uno spazio, quello della tela e della carta, uno spazio mentale e reale, materialmente finito e potenzialmente infinito».















