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Il fragile equilibrio delle immagini ai tempi dell’IA. La mostra della galleria Viasaterna di Milano
Mostre
C’è un momento quasi impercettibile in cui l’immagine smette di rappresentare e comincia a trasformarsi. È lì che Transizioni. Dal fotografico alle immagini ibride trova il proprio spazio: nel passaggio in cui la fotografia diventa altro, dove la realtà si dissolve tra materia digitale, luce e memoria. Le opere in mostra presso Viasaterna fino al 23 gennaio 2026 non cercano una verità visiva ma la tensione del cambiamento — quel punto in cui l’immagine si apre, si sfalda e si ricompone in una nuova forma. Il percorso si sviluppa in una serie di passaggi, prove o riscritture dello sguardo fotografico: ogni lavoro contribuisce alla messa in discussione di quest’ultimo, invitando il visitatore a osservare con attenzione ciò che resta e, qualora sia possibile, a carpire ciò che sfugge. In questa continua oscillazione tra presenza e assenza, tra fisico e virtuale, Transizioni parla del nostro modo di guardare oggi: incerto, frammentato, costantemente mediato dal filtro macchinico ma ancora profondamente legato al desiderio di comprendere le immagini con le quali quotidianamente siamo chiamati a confrontarci.

In Transizioni, ogni artista affronta il linguaggio fotografico come un terreno di attraversamento. La fotografia non è più punto d’arrivo ma campo aperto che accoglie interferenze, errori, risonanze. Alessandro Calabrese lavora sull’immagine come accumulo e disgregazione, intrecciando livelli visivi che sembrano collassare su sé stessi, come a voler riscrivere ossessivamente la propria memoria visiva. Leonardo Magrelli indaga la tensione tra immagine e assenza, costruendo spazi che appaiono reali ma che sono in realtà contaminati da una dimensione artificiale. Teresa Giannico e Camilla Gurgone esplorano invece il confine tra rappresentazione e finzione domestica: i loro ambienti e le loro messe in scena rivelano la natura della fotografia come luogo costruito e teatro dell’apparenza. Nelle opere di Luca Massaro e Alessandro Sambini la parola e il codice diventano strumenti visivi, portando la riflessione sul rapporto tra testo, immagine e algoritmo. Grace Martella e Alberto Sinigaglia spostano l’attenzione sulla materialità del supporto: la stampa, la superficie, la luce che si piega e si consuma, fino a far emergere l’immagine come oggetto fragile e vivo. Infine Giorgio Di Noto, con un richiamo alla fotografia delle origini, unisce passato e futuro nell’osservazione dagherrotipica dell’invisibile, che l’artista rintraccia nella più recente sperimentazione scientifica della plasmonica.

Tra queste presenze si insinuano, come accenti discreti, le tracce di due maestri: Constantin Brâncuși e Amedeo Modigliani. I loro interventi, quasi come una punteggiatura nel fraseggio della mostra, introducono una prospettiva storica che apre a ulteriori possibilità di lettura. Non si tratta di omaggi nostalgici, ma di presenze che ricordano come già agli inizi del Novecento la fotografia fosse per alcuni artisti un’estensione della scultura, un mezzo di riflessione e di verifica. Brâncuși la usava come strumento per comprendere meglio la propria opera nello spazio, per cogliere attraverso l’obiettivo ciò che la materia celava o deformava. Allo stesso modo, Modigliani, pur più legato alla dimensione pittorica, si serviva dell’immagine come punto di contatto tra forma e sguardo, come possibilità di fissare un equilibrio instabile tra presenza e idealizzazione.
In Transizioni, queste presenze storiche agiscono da ancora e da cassa di risonanza: testimoniano che la contaminazione tra mezzi non è un’invenzione recente ma un impulso costante, una necessità di negoziazione e ridefinizione della percezione. La fotografia, allora come oggi, si mostra non solo come documento ma come materia plastica, capace di interrogare il reale, di restituire alla forma la sua ambiguità, il suo tempo.

Nel suo insieme, Transizioni non celebra la crisi della fotografia ma la accoglie come forma di conoscenza. Ogni lavoro sembra interrogare ciò che resta dell’immagine dopo la sua smaterializzazione digitale: un residuo, un’ombra, una presenza che continua a farsi sentire anche quando la forma svanisce. Lo sguardo del curatore Mauro Zanchi, in collaborazione con Aurelio Andrighetto, costruisce un dialogo che non impone direzioni ma lascia spazio a una riflessione aperta e collettiva sulla possibilità di guardare oltre il visibile o di abbracciarne l’incertezza. In un contesto visivo come quello attuale, dominato da flussi incessanti di immagini generate, condivise e consumate, lo sguardo del fruitore è sottoposto a una costante sollecitazione. L’esperienza visiva quotidiana altro non è che un esercizio di adattamento: non sapendo più se ciò che vediamo ci appartiene, se siamo in grado di dominarlo o se ne siamo dominati, viene spontaneo chiedersi se siamo noi stessi ad appartenere al sistema di immagini che ci circonda e non viceversa. Transizioni intercetta proprio questa condizione, restituendo al gesto artistico la capacità (o per lo meno l’ambizione) di orientarsi nel disordine, di trovare una forma di respiro dentro l’eccesso visivo.

Ogni passaggio critico nella storia dell’immagine — e quello che viviamo al giorno d’oggi è certamente uno di questi — presenta l’occasione di rivelarsi fertile. È nelle fratture che l’arte trova spazio per rinnovare il linguaggio, per rimettere in gioco se stessa, la percezione e in ultimo la memoria. Gli artisti in mostra agiscono come recettori del presente, capaci di tradurre il disorientamento in una forma di lucidità poetica. Attraverso il loro sguardo, la transizione non è più solo un cambiamento tecnologico ma un modo per comprendere la nostra relazione con il visibile: fragile, instabile ma ancora profondamente umana.

In fondo, Transizioni ci ricorda che ogni immagine è un passaggio: un tentativo di trattenere ciò che muta, di dare forma a qualcosa che già sfugge. In un’epoca in cui lo sguardo rischia di perdersi nella velocità del flusso digitale, questa mostra invita a rallentare, a misurare con attenzione la distanza tra vedere e comprendere. Le opere non chiedono di essere decifrate ma attraversate: come superfici in movimento, come spazi dove il visibile torna a farsi pensiero. È forse in questo esercizio di attenzione — fragile, imperfetto ma necessario — che la fotografia, ancora una volta, trova la sua continuità più profonda.














