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Il giusto errore e il rischio della bellezza, nelle opere di Lorenzo Modica
Mostre
La Galleria Eugenia Delfini di Roma ha aperto la sua quarta stagione espositiva con The unfolding of itself, la prima personale in galleria di Lorenzo Modica, artista già noto per le sue mostre presso istituzioni nazionali e internazionali, dal Macro di Roma all’ Asc Gallery di Londra, fino alla Dinamo di Porto e alla Inex di Belgrado.
Il suo lavoro trova risonanza in una genealogia ampia, che attraversa il panorama internazionale, molto legata a una forte influenza belga-americana. Alcuni elementi infatti sembrano richiamare la pittura essenziale e quasi dimessa di Raoul De Keyser, dove il gesto minimo e la forma quotidiana diventano occasioni per rivelare una tensione poetica inattesa. In altri casi, la prossimità appare con Walter Swennen, soprattutto nella libertà ironica e apparentemente casuale con cui l’immagine si sottrae a un senso univoco, aprendosi al dubbio e alla contraddizione. Ma non meno significativo è il confronto con l’opera visionaria di Forrest Bess, in cui l’errore si confonde con la rivelazione e la pittura diventa territorio interiore, fragile e irriducibile a codici stabiliti.
Tutti questi casi, comunque, hanno in comune con l’opera di Modica il fatto di non apparire come un oggetto chiuso e rifinito ma, piuttosto, come un frammento esposto all’incertezza, pronto a registrare l’imprevedibilità del tempo e del pensiero che lo attraversa.

Arrivato alla Galleria Eugenia Delfini, mi sono avvicinato alla mostra con curiosità ma anche con qualche interrogativo. Il dialogo tra Luca Bertolo e Lorenzo Modica, che introduce l’esposizione e affronta il tema dell’errore nell’arte, mi aveva lasciato perplesso.
Come ricorda Bertolo, nel corso dell’ultimo secolo molte regole e convenzioni visive sono state radicalmente messe in discussione. In questo contesto, esempi come la tridimensionalità volutamente grezza, la colorazione parziale o l’uso di un segno che richiama il disegno infantile — esempi riportati dallo stesso Bertolo — mi sembravano più scelte intenzionali che veri inciampi del processo creativo. Temevo quindi che il dialogo introduttivo fosse un tentativo di presentare elementi in realtà consapevoli come errori autentici,al solo fine di attribuirgli un valore particolare.

Eppure, già dopo il primo giro in galleria e grazie al confronto diretto con l’artista, ho avuto modo di ricredermi. Degli errori ci sono, anche se difficili da notare nell’immediato, proprio perché vengono assorbiti e trasformati dal processo creativo, fino a diventare parte integrante del tessuto pittorico, non apparendo dunque come semplici segni di trascuratezza, bensì come tracce di un percorso: testimonianze che l’opera non si nasconde, ma mostra la propria vulnerabilità. È un promemoria prezioso del fatto che anche un artista può procedere per tentativi, come tutti del resto, affrontando problemi mai del tutto risolvibili. In questo senso, la bellezza nasce più dal rischio che dalla perfezione.

Questa logica avvicina il lavoro di Modica a quella che Raphael Rubinstein ha definito pittura provvisoria: una pittura che rifiuta la compiutezza e preferisce mostrarsi nella fragilità del suo farsi. La tela non è monumento alla certezza, ma campo aperto di possibilità, dove la figura eroica dell’artista come creatore infallibile lascia il posto all’imprevedibilità e alle contraddizioni che lo caratterizzano in quanto uomo.
Ed è proprio quella tensione tra ordine e precarietà che colpisce subito, non appena entrati nella galleria: il fatto che le sue opere non impongono la loro presenza con monumentalità ma che, invece, abitino quello spazio con un equilibrio instabile, quasi esitante. La superficie pittorica sembra svelare un tempo non lineare in cui ogni tela appare come un processo in corso, un evento che continua imperterrito a svolgersi davanti agli occhi dello spettatore.
È come se l’errore non appartenesse solo al momento della creazione ma fosse continuamente riattivato dalla fruizione, rendendo il pubblico partecipe del medesimo rischio che l’artista si è assunto. Il semplice guardare diventa così un esercizio di attenzione. Un’attenzione che non si rivolge alla perfezione formale ma alle crepe, ai margini, alle sospensioni in cui si apre la possibilità di significato.

L’artista sembra voler stabilire questo dialogo, invitando lo spettatore a condividere le sue difficoltà ma anche le scoperte nate dagli stessi errori, valorizzando quell’aura invisibile, ma autentica, di ciò che caratterizza l’esistenza di chiunque: l’imprevisto.
Nella pittura di Modica però non essendo né mimesi della realtà oggettiva, né invenzione di una realtà immaginaria, parlare di errore equivale inevitabilmente a parlare di una certa condizione umana. Ogni sbavatura, ogni taglio disallineato, sembra rimandare a una verità che riguarda non solo l’arte ma riflette in parte il modo che molti di noi hanno di far fronte alla quotidianità e di vivere la propria vita, proprio perché l’esistenza si fonda su una serie di continui tentativi, deviazioni e inciampi.
Questi elementi, lungi dall’essere segni di debolezza, si rivelano piuttosto indice di autenticità, gesti che rinunciano all’illusione di un controllo assoluto. La vulnerabilità di quel bilico tra figurazione e astrazione geometrica, che caratterizza le opere di Modica si rivela così come dichiarazione etica: il rifiuto di una perfezione levigata e inaccessibile, la scelta consapevole di mostrare la fragilità come forma di forza.

In un’epoca in cui le immagini digitali dominano lo spazio visivo con una lucidità artificiale e senza incrinature, la pittura di Modica appare come un atto di resistenza. Essa riafferma il valore dell’imperfetto, del non-finito, del fragile, contro la saturazione del perfetto e del replicabile. Non offre una consolazione, né si propone come linguaggio risolutivo, ma apre spazi di dubbio e di interrogazione. È forse proprio in questa mancanza di conclusione che risiede la sua forza: l’opera diventa luogo di possibilità e l’errore si trasforma in invito a riconoscere la nostra stessa fallibilità come parte ineludibile del vivere.

Per questo, macchie, tagli sbilenchi e sbavature divengono elementi di vitale importanza tanto da non venire rimossi, perché hanno qualcosa da raccontare in quanto parte di un tempo vissuto, sia dall’artista che dall’opera. Sono lì a ricordarci che queste opere non nascono già adulte e forse non lo diventeranno mai del tutto. Per dirla con un’eco delle parole di Paul Valéry: un dipinto non è mai finito, viene solo interrotto.














