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Vintage o ipermoderna, la pubblicità è il nostro specchio: la mostra alla Fondazione Magnani Rocca
Mostre
Cosa resta della pubblicità quando a creare l’immagine non è più l’uomo ma un algoritmo? Una domanda legittima da porsi oggigiorno, davanti al più recente dei progetti pubblicitari che vedono come protagonista l’intelligenza artificiale. Protagonista in questa occasione è un marchio che ha fatto della provocazione il suo linguaggio: United Colors of Benetton. La nuova campagna pubblicitaria FW/25, lanciata solo pochi giorni fa e realizzata con l’ausilio dell’intelligenza artificiale dal digital artist Rick Dick, richiama solo all’apparenza l’eredità dello storico marchio tessile trevigiano. Pur rifacendosi nelle intenzioni a quel binomio di moda e messaggio sociale che aveva reso iconico il brand negli anni Ottanta e Novanta, questa campagna lo fa con gli strumenti stessi che segnano la crisi dell’autenticità dell’immagine e del corpo umano.
Il cortocircuito è scattato, il dialogo con il passato inevitabile: cosa ne direbbe il “terrorista della pubblicità” Oliviero Toscani, autore delle scandalose campagne Benetton incentrate sulla rappresentazione di un’umanità reale, onesta, vera e sincera? Suore, preti, coppie miste e malati di AIDS lasciano oggi il posto alla finzione perfetta dei materiali tessili, dei sorrisi smaglianti e di figure iperuranie nelle quali è impossibile rintracciare le tanto amate imperfezioni. E se un tempo a scioccare era l’immagine giudicata “troppo vera”, oggi lo fa la l’ologramma AI generated.

Fortuna che, nel tentativo di navigare le acque di questo presente così spaesante e ricco di contraddizioni, è ancora possibile rivolgere lo sguardo indietro per cercare di orientarsi nel panorama futuro. Assolve egregiamente a questo compito la mostra Moda e pubblicità in Italia 1950-2000 presso la Fondazione Magnani-Rocca, un viaggio retrospettivo tra icone visive che, prima ancora del digitale e dell’avvento dell’AI – forse anche prima dell’avvento preponderante della fotografia nella comunicazione commerciale – sono state in grado di generare mondi, identità e desideri grazie al sapiente accostamento tra immagini, lettering e iconici slogan trasferiti su carta stampata.
Presso la Villa Dei Capolavori di Mamiano di Traversetolo, a Parma, dal 13 settembre al 14 dicembre, è possibile ammirare una selezione di più di 300 esemplari 一 manifesti, riviste, spot, fotografie, video, gadget pubblicitari 一 capaci di tracciare e ripercorrere mezzo secolo di storia collettiva attraverso i prodotti culturali e commerciali che hanno dato forma all’immaginario collettivo italiano dal secondo Dopoguerra alla fine degli anni Novanta.

A cura di Stefano Roffi, Dario Cimorelli ed Eugenia Paulicelli, la mostra ripercorre cronologicamente l’evoluzione dell’industria pubblicitaria nel contesto della moda. La prima sala è dunque dedicata ai grandi magazzini e alla nascita del pret a porter, che negli anni Cinquanta e Sessanta vengono raccontati con un linguaggio fortemente legato alla grafica, con chiari riferimenti al gusto sobrio e patinato che era all’epoca associato alla moda, la quale viveva ancora una realtà principalmente artigianale e lontana dalle logiche della grande industrializzazione che già si affacciava dall’altra parte dell’Oceano Atlantico al panorama statunitense.

Protagonista delle pubblicità di questo periodo è il tratto seducente di illustratori come René Gruau, caratterizzati da un uso disinvolto ma raffinato di colore, linee sinuose e tratti eleganti: sono questi gli anni delle iconiche dive del cinema, ambasciatrici dello stile italiano nel mondo. L’illustrazione risente degli influssi dell’astrattismo geometrico e le sperimentazioni tipografiche sono ancora figlie delle Avanguardie storiche. Ma una rivoluzione sta ormai bussando alle porte della Storia.
La sala seguente, dedicata agli anni Settanta, testimonia il ruolo centrale del colore, protagonista non solo e non più della grafica ma soprattutto della fotografia e della televisione. È questo il periodo della rivoluzione pubblicitaria e dell’allineamento con le più recenti tendenze europee e internazionali, durante il quale le immagini di Giovanni Gastel e Gian Paolo Barbieri trasportano il ritratto di moda in una nuova dimensione: quella del desidero, dell’aspirazione, della tensione a un ideale estetico avulso dal quotidiano.

Sono questi gli anni nei quali la lezione della Pop Art è stata ormai universalmente assimilata e la fede dei warholiani 15 minuti di fama si traduce in una volontà sempre più esplicita di stupire, sorprendere, e restare impressi nella memoria collettiva. Ci riescono bene l’iconica campagna Chi mi ama mi segua (1973) 一 che consacrò Oliviero Toscani nel suo ruolo di fotografo controverso per antonomasia一 o Non avrai altro jeans al di fuori di me di Jesus Jeans, nonché le prime iconiche apparizioni del lifestyle brand Fiorucci.

Il percorso procede attraverso gli anni Ottanta e Novanta, dove l’influenza postmoderna si fa sempre più evidente. La provocazione è il sale delle campagne, il loro strumento è il corpo: rivelato, spettacolarizzato ed esplicitamente mostrato, diventa protagonista dei manifesti, delle pagine patinate, degli spot televisivi. Contemporaneamente, gli slogan come opera d’arte diventano firma e marchio di fabbrica di brand come Moschino, Zegna e Armani.
Infine l’appropriazione, la decostruzione e la ricomposizione dei simboli raggiunge il proprio picco, riflettendo a pieno titolo l’influenza del Postmodernismo, giunto al proprio culmine negli anni Novanta. In un contesto culturale che rifiuta le grandi narrazioni e abbraccia l’ibridazione dei linguaggi, la pubblicità si fa autoriflessiva, ironica, cinica: mescola cultura alta e pop, sacro e profano, vintage e ipermoderno. Le immagini smettono di inseguire l’illusione della verità e si presentano come costruzioni consapevoli, giochi di citazioni e simulacri. È l’epoca in cui tutto può essere brand, tutto può essere moda — purché riconoscibile, sorprendente, memorabile.

Moda e Pubblicità 1950-2000 alla Fondazione Magnani-Rocca è un viaggio immersivo nella memoria visiva del Paese, capace di restituire non solo l’evoluzione del gusto ma anche i mutamenti profondi della società italiana. Attraverso manifesti, spot, riviste e oggetti iconici, la pubblicità emerge non come semplice strumento finalizzato alla vendita ma come linguaggio culturale a tutti gli effetti — capace di plasmare desideri, costruire narrazioni collettive e contribuire alla definizione di un’identità nazionale.
In particolare, la mostra riesce a mettere in evidenza il ruolo della pubblicità di moda nella costruzione del mito globale del Made in Italy. Ed è proprio da questa ricognizione storica che si può provare a leggere in controluce il presente: un’epoca in cui l’intelligenza artificiale sembra ricevere il testimone di quella tensione continua tra innovazione estetica e trasformazione sociale. Se oggi le immagini create con l’intelligenza artificiale sembrano prendere il sopravvento, imponendosi per la loro estetica universale, fluida e levigata, viene spontaneo chiedersi se proprio queste nuove forme di espressione visiva — che lasciano noi osservatori in bilico tra fascinazione e inquietudine — non rappresentino già il primo capitolo di un possibile sequel di questa mostra.
Pur sospendendo il giudizio, è impossibile non osservare come l’estetica AI ricopra un ruolo fondamentale nella grande narrazione del desiderio, dell’identità e del consumo odierno. Forse, come nel caso della fotografia e del video, anche questa nuova frontiera troverà il suo posto nella storia della pubblicità e della moda — e chissà, un giorno, anche nelle sale di un futuro capitolo intitolato Moda e Pubblicità in Italia 2000-2050.














