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L’arte contemporanea rilegge il colonialismo: la mostra al Museo di Capodimonte
Mostre
Con NAfrica – Maschere il Museo di Capodimonte di Napoli diventa un dispositivo di attraversamento culturale e temporale, una “camera del tempo” in cui lo spettatore entra per riemergere in un altrove complesso, fatto di stratificazioni, traumi, memorie e nuove visioni. La mostra, ospitata fino al 6 gennaio 2026, è curata da Simon Njami da un’idea di Andrea Ragosa per Black Tarantella, nell’ambito delle celebrazioni di Napoli2500, con la direzione artistica di Laura Valente, il supporto del Comune di Napoli e del Museo e Real Bosco di Capodimonte. L’iniziativa è realizzata in collaborazione con il Ministero della Cultura – Dipartimento Valorizzazione Patrimonio Culturale, l’Università L’Orientale e il MuCiv di Roma.

L’operazione è coraggiosa, non illustra ma interroga, non consola ma restituisce profondità a una storia spesso rimossa. Un ruolo centrale lo giocano i materiali provenienti dal museo di antropologia dell’Università Federico II di Napoli, tra cui i celebri calchi realizzati dall’antropologo fiorentino Lidio Cipriani durante i suoi viaggi nel Corno d’Africa tra il 1923 e il 1927. Documenti e immagini che testimoniano la costruzione scientifica e culturale “dell’altro”, un processo che ha alimentato per decenni etnocentrismo ed eurocentrismo. Napoli stessa ne custodisce tracce significative, dalle prime esposizioni di arte cosiddetta “Primitiva” emerse in parallelo alla Biennale di Venezia del 1922, fino alle grandi Esposizioni Coloniali del 1923 al Maschio Angioino e del 1940 alla Mostra d’Oltremare.

I calchi di Cipriani trovano un contraltare nel lavoro di Délio Jasse (No Calco, 2025), che li rilegge in chiave pop, aspra e iconica, trasformando il reperto antropometrico in immagine politica. La stessa tensione attraversa l’opera di Antonio Biasiucci (Molti, 2009): volti decontestualizzati, sommersi come presenze fantasma del Mediterraneo contemporaneo. Il tema del volto come superficie da attraversare, scomporre e ricostruire ritorna in Maurice Pefura (Ri-Facio, 2025), dove un’umanità stereotipata, imprigionata, quasi complice della propria eredità culturale, costringe lo spettatore a un confronto diretto con se stesso.

Il nucleo della mostra è un caleidoscopio di maschere astratte, tribali, politiche, ironiche. Quelle tradizionali, come la Maschera Dan Guéré, dialogano con le sperimentazioni contemporanee, rivelando quanto questo oggetto sia stato e continui a essere un punto di intersezione tra Africa ed Europa. Lo dimostrano i rimandi a Picasso, a Munch, all’Avanguardia primitivista ma anche alle attuali estetiche globali.

Tra le opere più incisive, White Mask with Spines e Black Mask with Mouth, con le quali Jean Lamore mette in scena una democrazia occidentale “spigolosa”, pericolosa, insinuata nella fragilità dell’altro. Pascale Marthine Tayou (Masque bronzé, 2019) risponde con una maschera brillante e irriverente, mentre Gonçalo Mabunda (O Inevitavel, 2017) costruisce un volto meccanico e guerriero fatto di bossoli e ordigni, ricordo tangibile dei conflitti mozambicani.

Più lievi eppure colme di tensione identitaria, le maschere di Edson Chagas, così come quelle aliene di Bruno Ceccobelli (Migdala della pace, 2011). In Invisible Portraits di Michèle Magema, il volto nero si copre di bianco: un gesto doloroso che rivela il peso del pregiudizio occidentale. In contrappunto, Assunta Saulle (Mademoiselles de Naples, 2025) fotografa una statua napoletana candida e ne annerisce il volto, ribaltando ruoli, simboli e narrazioni.

Il percorso non evita le zone d’ombra della storia. L’arte dissacrante di Ugo Giletta (Volto, 2025) evoca una sorta di sindone nera, memoria di discriminazioni veicolate anche dalle istituzioni religiose. Felice Levini con (Quattro punti cardinali 1992) offre un atlante simbolico che orienta – o disorienta – lo spettatore.

Dai volti si passa ai corpi. Euridice Zaituna Kala (Modèle I, 2020) descrive la donna nera come oggetto dell’uomo bianco, mentre nello stesso contesto storico anche la donna bianca subiva discriminazioni, come mostra il Disegno per il Manifesto del Gruppo XX di Mathelda Balatresi. I corpi maschili “violentati” delle opere di Myriam Mihindou (Série Déchouka, 2004-2006) amplificano la dimensione del trauma. Eppure, uno spiraglio di speranza affiora in Cielo abitato di Michele Zazza, fino a raggiungere le profondità esistenziali di Pélagie Gbaguidi (The Post-Traumatic Patriarchy, 2004 – serie: Quel est le sens de la vie sur terre et la fabrique de la conscience), che interroga il senso della vita e la costruzione della coscienza collettiva.













