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L’arte può sanare le ferite collettive? Pratiche di comunità al MAXXI di Roma
Mostre
Apre al MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo la prima grande retrospettiva dedicata all’arte relazionale. Curata da Nicolas Bourriaud con Eleonora Farina come curatrice associata, la mostra ripercorre le origini, lo sviluppo e le prospettive future dell’ultima delle avanguardie, facendo il punto su trent’anni di Arte Relazionale. La mostra offre l’occasione di confrontarsi con alcune tra le più celebri opere di questa corrente e di sperimentare in prima persona dinamiche di comunità, grazie al contributo di collettivi coinvolti come Britto Arts Trust, che nel corso dei quattro mesi di mostra (visitabile fino all’1 marzo 2026) attiveranno le zone della Galleria 3 e altri spazi del MAXXI.

L’Arte Relazionale, definito come uno dei principali movimenti del nuovo Millennio, continua a porre l’accento sul coinvolgimento diretto del pubblico e la costruzione di relazioni sociali come parte integrante dell’opera, piuttosto che la produzione di oggetti estetici. Con il celebre testo Estetica Relazionale del 1998, è stato proprio Nicolas Bourriaud, teorico di fama internazionale ed ex direttore del Palais de Tokyo, a codificare il fenomeno artistico già esistente a livello globale, riconoscendo ed evidenziando i caratteri peculiari che accomunano le opere senza definirne uno stile univoco ma un orizzonte teorico.

I processi partecipativi e la creazione di micro-utopie sono quindi i principi che accomunano le ricerche dei 45 artisti in mostra tra cui Vanessa Beecroft, Dominique Gonzalez-Foerster, Carsten Höller, Pierre Huyghe, Philippe Parreno, Rirkrit Tiravanija, Duglas Gordon, Sophie Calle. Altri artisti inizialmente invitati, tra cui Phil Collins, Siniša Mitrović, Tania Bruguera, Alessandra Saviotti, Gemma Medina e Dora García, hanno deciso di non partecipare alla mostra in risposta al posizionamento del MAXXI rispetto alla situazione in Palestina.

Senza percorsi prestabiliti, la mostra pone al centro del discorso i rapporti umani, lasciando aperto il dialogo tra le opere, i performer e chi osserva. 1+1 è una mostra che non andrebbe visitata ma “consumata”: sono numerose, infatti, le attivazioni immaginate attraverso performance e luoghi immersivi, che permetteranno l’esondazione del risultato oltre l’oggetto d’arte. Chi si è trovato di fronte ai resti di Untitled 1990 (Pad Thai) di Rirkrit Tiravanija sa che vedere esposte in mostra pentole sporche, barattoli semi vuoti, ciò che rimane dei pasti cucinati e consumati con il pubblico durante l’azione artistica, significa entrare in contatto diretto con il senso più profondo dell’Arte Relazionale.

Nicolas Bourriaud, durante l’opening, lancia una domanda aperta: come si affrontano le problematiche del nostro tempo? Come si recupera la crisi della collettività? Questi sono i temi da cui prendono avvio molte delle ricerche presenti in mostra, restituite attraverso installazioni ambientali e viventi, strumenti autentici di relazione, piattaforme di scambio che trovano senso nell’interazione. Na Moita, lavoro del collettivo OPAVIVARÁ!, è un’oasi, un rifugio organico che invita alla condivisione creando uno spazio accogliente e fluido. Pakghor & Palan di Britto Arts Trust è invece un dispositivo che indaga il tema della crisi alimentare. Ispirata alle cucine sociali bengalesi, luoghi in cui non si prepara solo cibo ma ci si incontra, si ascolta e si scambiano idee, Pakghor è un’architettura temporanea che si attiva grazie agli ortaggi coltivati in Palan, orto collettivo che nei mesi della mostra vivrà su Piazza Alighiero Boetti. Le indagini politiche e sociali portate avanti dagli artisti relazionali aprono spazi di interstizio da cui immaginare alternative di vita possibili, mentre 1+1 ricorda che gli incontri umani liberi dalle logiche di profitto sono un tema ancora vivo, in grado di generare un movimento opposto alle tendenze disumanizzanti del presente. 1+1 è un percorso di ritorno che invita a partecipare, a fermarsi, a riconoscersi.















