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Le fotografie di Alessandro Grassani esposte a Milano sono viaggi che non ci lasciano indifferenti
Mostre
di Luca Maffeo
La storia odierna sta mostrando il verso di un benessere forse per troppo tempo dato per scontato. Eppure, per quel che accade tra le mutazioni geopolitiche in atto, fino alla diaspora umana che vede il movimentarsi di gruppi di persone in lungo e in largo per il globo, l’indifferenza non può più essere la soluzione. Ovvero, la non-distinzione tra una quotidianità che dà sicurezza e la soglia che la separa dalle vicissitudini tanto teorizzate, ad esempio dalla cultura europea, ma che rischiano di diventare un ideale astratto prossimo alla dimenticanza. E il gioco, purtroppo, sembra sempre quello di riuscire, in un modo o nell’altro, di arrivare, malgrado tutto, in salute al gran finale. Ognuno per sé e Dio per tutti.
Le storie narrate visivamente da Alessandro Grassani (1977) nella mostra Emergenza climatica. Un viaggio ai confini del mondo, allestita presso il Museo Diocesano di Milano a cura di Denis Curti, accendono di nuovo quella luce tanto necessaria da non impedire alla nostra memoria di fare propri tali accadimenti. L’attualità lo ha portato a lavorare in diversi paesi del mondo, dal Mozambico alla Costa d’Avorio, Haiti e la Bolivia, il Myammar e l’Indonesia. Con quel piglio che sembra amplificare Gianni Berengo Gardin quando, senza mezzi termini, affermava che ogni cosa, ogni situazione è sociale; e basterebbe ogni tanto aprire con attenzione la porta di casa per rendersene conto!


Mediante fotografie dalla resa pulita si innalza, dunque, l’azione talvolta sfocata che pone l’immagine tra la patinatura pubblicitaria e il più classico dei reportage. In un viaggio che sembra immergersi nel Nostos contemporaneo di genti capaci, al pari del più audace Odisseo, di lasciare casa, ma per arrivare a casa. A terre e luoghi differenti, da raggiungere ognuno con il proprio bagaglio di usi e costumi, fedi e tradizioni che delle persone immortalate ne avevano segnato l’essere e ne avevano decretato “l’abito”. La sostanza, il modo di vivere, ora più che mai alle prese con una migrazione che non può essere posticipata. La già citata Haiti come la Mongolia, il Kenya, il Bangladesh, perciò, diventano per noi astanti l’emblema di un cambiamento climatico che non è solo parola e non è solo concetto.
Il terreno kenyota, all’ottanta per cento arido o semi-arido; la misera baracca di Port-au-Prince dove la ventottenne haitiana Nadie Preval vive con la figlia e il marito; oppure l’inondazione delle campagne bengalesi, che ogni anno sfolla oltre trecentomila persone, sono tappe di un percorso. Fermo immagine di una condizione non distante, ma che «interessa ognuno di noi», scrive la direttrice del museo Nadia Righi, che «coinvolge» e stimola la nostra «partecipazione attiva nel contrastarla». Si può, pertanto, cedere alla tentazione di leggere gli scatti di Alessandro Grassani come fossero l’idillio di un romanticismo rurale atto a innescare il desiderio di mondi altri e lontani. Ciononostante, non se ne terrebbe conto. Ha ragione, infatti, Denis Curti nel sostenere che quella di Grassani è tutt’altra visione. Giacché in grado di spostare la nostra attenzione dall’intuito di una «forte propensione ambientalista” e «documentaria», a una «sorpresa umanista» che lo pone, per taglio e scelta compositiva, tra il colore di Steve McCurry e le storie di Minamata del più celebre Eugene Smith.
















