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Nel panorama dell’arte contemporanea europea, Blanca Gracia (Madrid, 1989) si impone come una delle voci più originali di una generazione di artiste che hanno fatto del mito, della natura e del linguaggio i tre assi di una riflessione radicalmente contemporanea. Nei suoi acquerelli, nelle animazioni e nelle installazioni, l’immaginazione diventa uno spazio di resistenza: un giardino utopico in cui la dolcezza delle forme convive con la critica verso ogni sistema di controllo e classificazione.
Gracia costruisce un universo popolato da piante ribelli, figure ibride, esseri che sfuggono a ogni definizione. La sua pratica nasce da una tensione costante: quella tra la leggerezza visiva del segno e la densità concettuale del suo discorso. È un’arte che parla sottovoce, ma che lascia un’eco profonda: un linguaggio alternativo capace di mettere in discussione i codici della cultura dominante.

Alumbré un tigre de sol, 2022 hand-embossed copper and brass plates and rods, lacquered and soldered with tin and silver 50 x 40 x 90 cm
Radici e formazione di una voce autonoma
Diplomata in Belle Arti all’Universidad Complutense de Madrid, con un periodo di studio alla University of New Mexico, Blanca Gracia ha sviluppato un percorso segnato da una precoce libertà formale. L’esperienza di residenza presso Gasworks (Londra, 2023) e la partecipazione a progetti come Matadero Madrid o La Capella di Barcellona hanno contribuito a collocarla in un dialogo internazionale, pur mantenendo una forte identità iberica.
Nei primi lavori l’artista si confrontava con la pittura narrativa e con il collage, per poi approdare a una visione più organica, dove la materia pittorica e il racconto mitologico si fondono in un’unica trama. La leggerezza dell’acquerello — medium privilegiato — non è scelta decorativa, è un modo per abitare la fragilità, per trasformarla in linguaggio.

Linguaggio e potere
“Nomina sunt consequentia rerum”, scrivevano i filosofi medievali: i nomi sono conseguenza delle cose. Ma per Blanca Gracia accade l’opposto, sono i nomi a creare le cose, a determinarne il destino. Nei suoi lavori, la riflessione sul linguaggio è costante, le parole che definiscono il mondo sono strumenti di controllo, ma anche potenziali generatori di nuovi immaginari.
Gracia sembra suggerire che ogni parola, come un seme, contiene la possibilità di una mutazione. Il linguaggio, se liberato dal potere, può fiorire. E l’arte diventa allora il terreno di questa germinazione semantica: un luogo in cui ciò che è stato espulso dal discorso — il silenzio, l’errore, il balbettio — si trasforma in nuova forma di conoscenza.

Visioni mitiche e contemporanee
Nel suo universo visivo convivono riferimenti alla mitologia mediterranea, al folklore iberico e alla cultura pop. Le figure femminili che popolano i suoi disegni hanno qualcosa delle ninfe e delle sante, ma anche delle eroine dei manga o delle icone pubblicitarie: corpi attraversati da memorie antiche e contemporanee.
La dimensione mitologica non è mai nostalgica. Piuttosto, è un metodo per reinventare la realtà. Se il mito tradizionale spiegava l’origine del mondo, il mito di Blanca Gracia ne racconta la trasformazione continua. Le sue storie non hanno inizio né fine; germogliano, si ramificano, si ibridano. L’immaginazione, per lei, è un atto politico: permette di pensare ciò che ancora non esiste.

L’artista costruisce così una mitologia del margine, un pantheon di creature minori che ricordano le figure di Leonora Carrington, Remedios Varo o Kiki Smith ma in un registro più intimo, quasi diaristico. Le sue immagini sembrano sognate più che disegnate, come se emergessero da uno spazio interiore dove memoria e desiderio coincidono.
Marginalia: un erbario ai confini della pagina
Questa ricerca trova una nuova espressione nella mostra Marginalia, alla Galleria ADA Project di Roma, dal 7 novembre 2025 al 17 gennaio 2026, dove l’artista esplora il concetto stesso di margine come spazio di libertà e trasformazione. I marginalia sono annotazioni, disegni e incisioni che compaiono ai bordi di racconti, documenti o codici miniati: creature stravaganti che si allontanano dal discorso centrale dell’opera, ospitate nel fogliame che circonda il testo principale.
In questi margini, Gracia dispiega un erbario in cui le specie botaniche sono sospese nel tempo, in bilico tra due corpi: umano e vegetale. Tutte queste diverse erbe incarnano identità un tempo umane, che hanno poi dovuto trasformarsi in paesaggio come meccanismo di difesa. La mimesi e la metamorfosi proteggono infatti chi è perseguitato, poiché la nostra cecità nei confronti della natura lo rende invisibile.

Così, due piante di finocchio innamorate si intrecciano, desiderandosi l’un l’altra: ora che non hanno più un corpo, nessuno potrà disturbarle. Una falena imita un calabrone mortale per spaventare gli entomologi e si posa su un gelso, ascoltando con le orecchie ben aperte tutto ciò che sussurriamo nella stanza. Una Boquila Trifoliata, la pianta che tutto vede, si dispiega verso il soffitto, riflettendo tutto ciò che la circonda: quanto più diventa comune, tanto meno è possibile accorgersi della sua presenza. I fiori rovesciati del fico restano assopiti, in attesa che qualcuno dia il primo morso che innescherà la trasformazione. Nel frattempo, le amiche arpie, due “uccellacci”, svolazzano disegnando traiettorie a zigzag.

Ciò che accade oltre le mura dà vita a giardini traboccanti oltre i confini della pagina, un universo parallelo dove le identità marginali trovano rifugio nella metamorfosi, dove il confine tra testo e immagine, tra umano e naturale, tra voce e silenzio si dissolve in una nuova ecologia del senso.
Leggerezza come forma di resistenza
Ciò che colpisce nel lavoro di Gracia è la capacità di coniugare la dolcezza estetica con la forza critica. I suoi acquerelli, apparentemente delicati, nascondono una tensione sovversiva. Ogni linea sottile è una forma di disobbedienza; ogni colore pastello, un atto di rivolta silenziosa.
L’artista sembra condividere con Italo Calvino l’idea che «La leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, senza macigni sul cuore». Nei suoi mondi sospesi, il colore diventa un veicolo per la riflessione, non un rifugio estetizzante. Le sue opere chiedono allo spettatore di rallentare, di ascoltare il silenzio, di abbandonare le categorie.

Oltre l’umano
Nel tempo della crisi ecologica e della sovrapproduzione digitale, Blanca Gracia propone una visione post-umana ma profondamente empatica. I suoi organismi ibridi non cancellano l’umano, ma lo decentrano: lo collocano in un ecosistema simbolico più ampio, dove piante, parole e desideri coesistono.
In questa prospettiva, il suo lavoro partecipa a una delle più urgenti discussioni del nostro tempo: quella sulla necessità di un nuovo rapporto tra cultura e natura, tra linguaggio e materia. L’immaginazione non è evasione, ma ritorno alle origini.
Un’estetica della metamorfosi
Blanca Gracia appartiene a una generazione che ha compreso come il compito dell’arte non sia più rappresentare il mondo, ma rigenerarlo. Le sue opere — sottili, poetiche, a volte ironiche — propongono un nuovo modo di pensare la metamorfosi, non come eccezione ma come condizione permanente della vita.

Nei suoi universi, ogni erba cattiva diventa seme di libertà; ogni parola dimenticata, possibilità di rinascita. In un tempo che sembra voler sterilizzare l’immaginazione, l’arte di Blanca Gracia ricorda che la resistenza può avere il colore tenue di un acquerello e la forza inarrestabile di un fiore che cresce tra le crepe dell’asfalto.












