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Pietro Lista, uno sguardo in controluce: la mostra al Madre di Napoli
Mostre
di Diego Osimo
Come lampi di smerigliatrice che graffiano il modulo primo e buio dell’esistenza, oltre cui, senza luce, non vi sarebbe percezione, né vita. Come bagliori che restituiscono una forma al creato e un respiro d’immagine alle sue creature, così, la luce, nella pratica di Pietro Lista (Castiglione del Lago, 1941), risolve tanto sul fare artistico che sulle premesse della materia, lasciando affiorare l’immediato interrogativo: se non vi fosse chiarore a scindere i contorni delle cose, non sarebbe ogni abitante del reale un corpo unico e indistinguibile, in cui resta indefinita l’intersezione tra l’origine dell’uno e la fine dell’altro?

In controluce, a cura di Renata Caragliano, sarà in mostra al Museo Madre di Napoli fino al 17 novembre 2025: un nuovo e composito racconto in cui è tracciata una cartografia concentrica su 50 anni di lavoro dell’artista, illuminando approcci e temi di un pratica erratica, dalla creazione alle pagine del cosmo, dai corpi al corpo della ragione, fino a gettare uno sguardo intimo sull’individuo che, poi, torna collettivo.

Tra sette sale del museo, cinque aree tematiche composte di opere provenienti da momenti diversi nella pratica di Pietro Lista che delineano un “Dispositivo espositivo” a partire dall’elemento essenziale della luce — indicazione, premessa e soluzione del percorso. Dal periodo in cui l’artista prese parte alla storica rassegna Arte Povera più Azioni Povere, tenutasi nel 1968 agli antichi Arsenali di Amalfi, curata da Germano Celant e promossa da Marcello Rumma, derivano le testimonianze in “luce pura”, rivelata da grembi di sabbia o catturata in reti da pesca come germe prezioso. In quelle giornate di ottobre, animate da installazioni e momenti performativi che si estesero al dibattito critico coinvolgendo figure come Achille Bonito Oliva, Filiberto Menna, Angelo Trimarco, Gillo Dorfles, Piero Gilardi e Tommaso Trini, Pietro Lista intervenne con l’azione/installazione La scoperta della luce, evocando con le mani, dal suolo arenoso, l’emersione di un neon nel notturno amalfitano.

Analogamente, cenni di esistenza, come piogge sottili in bianco sul vuoto, primeggiano appena sul “Grado 0” della pittura del Nero di Marte, che trae il nome dal pigmento minerale che riempie completamente le tele di questa serie, dove la semplificazione cromatica e il ritorno all’assenza risolvono «[…] Il conflitto tra immagine e astrazione, tra opera e idea, tra visibile e invisibile, tra tangibile ed intangibile»; l’artista vi imprime una pittura primigenia, forgiando un principio nel denso colore — che pure vibra e trema, in cui è possibile cogliere il fremito dell’esistenza se osservato, nelle sue trame, proprio in controluce.

Dalla serie/manifesto della Cielitudine derivano le Nuvole, forme invece mutevoli e inafferrabili, disciolte nello spazio celeste, intermediarie dai contorni franti che si imprimono come grafemi a formare un «Vocabolario iconografico» che l’artista può manipolare e assemblare nel gioco di cieli immaginari. «[…] Segno del lavoro incessante della luce nello spazio», in negativo e in positivo sulle superfici, le nuvole formano un codice modulare, utile a realizzare partiture meccaniche del rapporto umano con quell’oceano di luce diffusa nell’aria. Alcune di queste nuvole co-abitano e intersecano lo spazio progettuale delle loro premesse, in un cortocircuito che unisce ideazione e attuazione ed espone allo sguardo, contemporaneamente, l’agire e il pensare.

Dal cerebrale controllo degli agenti atmosferici, la luce attraversa, poi, le sagome dei Corpi acefali, privi di testa e percezione, di ragione e identità; abbandonati da ogni connotazione, diventano un tutt’uno con lo spazio che abitano, come punti di sutura di un’unica entità, di unicità azzerate in relazione, in cui l’assenza dei volti offre un indefinito permeabile. A compiere il cerchio, La testa “ritrovata” dell’artista, offre una serie di apici ai corpi interrotti, ma internamente privi di luce, morenti, in un processo di ricerca che l’artista ha condotto negli anni per far emergere il profondo sé dall’immagine di sé.

In controluce offre metodi e approcci di una personalità instancabilmente mobile, che attraversa sé stessa e permea ciò che incontra, riducendo la distanza tra universi che soltanto la luce può attraversare e rivelare. Pietro Lista ha operato negli anni su numerose curvature del proprio linguaggio, impegnandosi «[…] A segnare il territorio con opere pubbliche di forte valore simbolico e civile». A questo tipo di esperienze corrispondono opere come l’obelisco urbano Fermo immagine, per il rilancio della zona industriale di Battipaglia, o come Mnemata, scultura in bronzo entrata a far parte del Parco di Sculture d’Arte contemporanea dell’Università degli Studi di Salerno nel 1991. O, ancora, come Il silenzio delle pietre, installazione realizzata a Salerno per commemorare gli operai morti sul lavoro.

Anche in queste esperienze, la presenza della luce permane nell’Io che osserva, assegnando alla memoria il dovere di illuminare sé stessa, di ridare forma — fisica, materiale, e visibile — al ricordo di ciò che la luce non può più rincorrere e vestire di esistenza, risalendo il tempo.














