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Psicomagia dei colori per Jeffrey Gibson: una mostra tra sacchi da boxe e perline
Mostre
L’artista americano Jeffrey Gibson (1972, Colorado, USA) arriva per la prima volta in Francia, a Parigi, da Hauser & Wirth, con la mostra intitolata THIS IS DEDICATED TO THE ONE I LOVE. Ad aprire la settimana più intensa per la capitale francese, con Art Basel Paris in programma al Grand Palais dal 24 ottobre, la galleria inaugura con tre nuove serie che «Invitano a una riflessione sull’empatia e sulla maniera in cui noi agiamo e creiamo in momenti di crisi».
La direttrice di Hauser & Wirth New York, Caitlin Foreht, racconta come la collaborazione tra l’artista e la galleria fosse stata annunciata proprio in questo stesso periodo un anno fa e oggi sia diventata realtà tangibile attraverso dipinti di grandi e piccole dimensioni, collage, ceramiche e nuove opere della celebre serie dedicata ai sacchi da boxe, ai mantelli appesi e ai dipinti uniti a perline. Gibson ha vissuto in diverse città degli Stati Uniti ma anche in Germania e in Corea. Ha inoltre origini Choctaw e Cherokee e questo si riflette nella sua ricerca multidisciplinare, intima ma anche dimostrativa e radicale, in cui indaga la storia americana, le tradizioni indigene, la cultura queer, insieme alla musica popolare, alla letteratura e alla storia dell’arte.

Appena si entra nello spazio espositivo, il gioco di combinazioni cromatiche e di materiali crea un ambiente allegro, quasi psichedelico, grazie alle geometrie e all’accostamento di sfumature e forme in cui il rigore della linea si unisce alla fluidità della curva. La produzione si rifà anche al concetto di “psicoprismatismo”, ovvero quella «Capacità che hanno la luce, i colori e i prismi di rivelare simultaneamente più realtà». A questo proposito, l’artista parla di un approccio al colore «Alchemico e spirituale», stabilendo un parallelismo tra l’utilizzo di centinaia (fino a 400) sfumature differenti, che l’occhio percepisce simultaneamente, e il suo tentativo di mantenere un linguaggio rispettoso, capace di esistere su più livelli di significato.

Al piano terra della galleria sono esposti tre dipinti di grande formato incorniciati da un fine e delicato intreccio di perline colorate che ne seguono le forme, come una greca, e una piccola tela più semplice che richiama il sole allo zenit. A fare da contrappunto in sala, due sacchi da boxe interamente ricoperti di perline, anch’essi caratterizzati da motivi ricorrenti alternati a scritte che invitano a seguire la forma del sacco e ad approfondirne il ricamo per comprenderne il significato. “I WANT TO TAKE YOU HIGHER”, “NEVER LET YOUR SPIRIT BEND”: queste le frasi che si leggono su uno dei sacchi. Si crea così un tentativo di negoziazione tra il significato della frase a se stante, quello derivante dal fatto che sia applicata a un sacco da boxe e il suo valore nella vita del singolo o della comunità.
Gibson ha iniziato questa serie nel 2011, in un momento di difficoltà personale, quando il suo terapeuta gli consigliò di lavorare con un personal trainer che lo invitò a usare il sacco da boxe come valvola di sfogo per la rabbia e la frustrazione: “Do you want to hit that?”, gli diceva. Il gesto di colpire quell’oggetto a lui familiare si è rivelato una forma catartica di liberazione emotiva, facendogli comprendere anche la disconnessione tra mente e corpo.

L’artista ha sempre lavorato con le comunità indigene e, per poterlo fare, ha dovuto mantenere una costante forma di rispetto. Le perline che ornano i sacchi simboleggiano infatti l’identità collettiva e l’orgoglio di queste popolazioni di fronte alla cultura dominante di matrice coloniale, con cui Gibson si è sempre dovuto confrontare. Le frasi diventano moniti, «Frammenti di narrazioni più ampie che resistono a qualsiasi definitività». Il titolo della mostra si ispira a una canzone ed è anche il titolo di uno dei sacchi da boxe: THIS IS DEDICATED TO THE ONE I LOVE. L’artista lo percepisce come un abbraccio, ma al tempo stesso anche come un “distacco melanconico”.

Così anche ANGEL OF MY SOUL DON’T LET ME GO, una scultura a parete dalla forma trapezoidale che riproduce idealmente il retro di un abito, come un mantello, generalmente utilizzato dalle donne danzatrici indigene. Gibson è stato il primo artista indigeno a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia 2024 e, all’apertura del Padiglione, ha invitato artisti, danzatori e cantanti americani-indigeni a ballare: «You are dancing for a spirit, you are dancing for the future and you are dancing for the past», allontanando la nozione contemporanea di performatività.
Al piano superiore della galleria si trovano sette piccoli dipinti che raffigurano il sole e la luna in differenti momenti del giorno e della notte, realizzati con la stessa tecnica di sfumature dei dipinti precedenti, che conferisce un forte senso di movimento e vibrazione. Accanto, un’opera di medie dimensioni realizzata con la tecnica del collage attira l’attenzione. Lui stesso si definisce «A collage artist», poiché questa definizione descrive perfettamente il suo modo di pensare, di ragionare e di intrecciare i riferimenti culturali che ha vissuto. Metaforicamente, accosta il collage alla collezione, intesa come la capacità di “collect”, raccogliere, immagini, parole e oggetti.

Accanto sono esposte per la prima volta due sculture di teste in ceramica, frutto dell’interesse dell’artista per i vasi con teste del Mississippi, una forma unica di ceramica indigena nordamericana precolombiana. L’artista si è avvicinato a questo medium in tempi recenti, attorno al 2014, con l’intento di ripensare questa tecnica, i popoli che la utilizzavano e il modo in cui i loro volti erano spesso caratterizzati da scarnificazioni, tatuaggi o piercing, motivo per cui le superfici dei suoi lavori risultano così elaborate.

Dalla parte opposta della sala si trova l’ultima opera realizzata per la mostra, posta a parete e composta interamente da perline: I WISH THAT EVERY HUMAN LIFE MIGHT BE PURE TRANSPARENT FREEDOM. La fantasia è molto minuta e richiede distanza per essere colta nel suo insieme; l’inserimento della scritta all’interno della greca implica un continuo aggiustamento prima della fissazione definitiva. La tecnica è complessa tanto quanto i concetti evocati dal titolo: “They are not fixed, they are in a kind of indeterminate space and so I think the notion of freedom plays with the idea of indeterminate space as well, it’s like the word ‘love’, it’s not simple”.














