28 dicembre 2020

Addio a Barbara Rose, in tre passaggi chiave dei suoi esordi critici

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Raffinatissima osservatrice dei movimenti artistici emergenti del Secondo Dopoguerra, Barbara Rose è morta a 84 anni: ecco tre passaggi fondamentali nella sua ricerca critica

Barbara Rose
Barbara Rose

Raffinata conoscitrice dell’arte medievale, acuta osservatrice dei fenomeni culturali emergenti del Secondo Dopoguerra, punto di riferimento per artisti, galleristi e studiosi, Barbara Rose è morta nella notte del 25 dicembre 2020, a 84 anni, per un tumore al seno. Nata a Washington, l’11 giugno 1936, Rose aveva intessuto un lungo rapporto con l’Italia: oltre a essere direttrice del programma dell’Istituto Internazionale di Arte e Architettura a Corciano, visse per molti anni a Villa Augusta a Camerata, nel comune di Todi. Tra i vicedirettori dell’Enciclopedia Treccani dell’Arte contemporanea e collaboratrice del Corriere della Sera,  esperta di scultura romanica, tenace sostenitrice dell’eterna vitalità della pittura nel contemporaneo, Rose codificò il movimento del Minimalismo americano e scrisse decine di articoli e saggi entrati nella storia della critica d’arte, per riviste come Vogue, the Partisan Review, New York Magazine e Artforum.

Conseguì un dottorato alla Columbia University, dove studiò con Meyer Schapiro, e in seguito frequentò la Sorbonne di Parigi. Grazie al direttore della fotografia e regista Michael Chapman, conobbe alcuni tra i pionieri del Minimalismo americano, tra cui Carl Andre e, soprattutto, Frank Stella, che avrebbe sposato nel 1961, durante una borsa di studio Fulbright in Spagna. Già da giovane diventò una delle presenze fisse del vivacissimo ambiente artistico di New York degli anni ’60 e ’70. Su suggerimento del critico Michael Fried, iniziò a scrivere per riviste d’arte, stabilendo le linee guida di un gruppo di artisti poi riuniti nel Minimalismo, le cui radici storiche Rose ritrovò sintetizzando le lezioni di Malevich e Duchamp.

La ricordiamo con tre passaggi fondamentali, agli esordi del suo percorso critico.

Dal gusto perverso della Pop Art all’estetica militante: gli articoli di Barbara Rose

Filthy Pictures: some chapters in the history of taste, 1965

[…] Mi sono chiesta perché le figure scorticate e distorte di Schiele e le superfici torturate e costrette di Klimt dovessero mostrarsi così provocatorie e perché, dopo diversi decenni di relativa oscurità, i due austriaci abbiano goduto di un ritorno di gusto. Le loro opere […] Al contrario, soffrono dello stesso “horror vacui” dell’ornamento Art Nouveau, a cui sono legati i loro arabeschi aggrovigliati e febbrili. […] Klimt e Schiele non riescono a coinvolgere le emozioni perché usano perversamente una retorica esplosiva e una materiale espressivo al fine di uno stile ornamentale. Le distorsioni della figura umana sono ciò che li contraddistingue come espressionisti, piuttosto che la capacità delle loro tele di evocare una reazione emotiva. Non toccano le corde del cuore ma la punta delle dita […].

Il gusto perverso, o gusto “camp”, innegabilmente uno dei modi dominanti della sensibilità contemporanea, trova qualcosa di particolarmente delizioso in questi stili, che hanno in comune il fatto che si occupano in gran parte dell’erotico nelle sue forme più remote di espressione. E, non a caso, l’erotismo perverso è diventato il contenuto di una certa parte della nostra arte.

Gran parte di questo erotismo perverso ha trovato la sua strada nel nuovo stile della pittura di figura legata alla emergente Pop Art. Questo nuovo stile figurativo è piuttosto diverso dalla pittura figurativa dell’ultimo decennio, che era il più delle volte solo una variante dell’Espressionismo astratto. […] D’altra parte, il successo della Pop Art sembra aver stimolato una rinascita di interesse per la figura al punto che nelle gallerie si vedono più figure pittoriche di quante se ne vedano da tempo […].

Abstract Illusionism, 1967

[…] Il tipo di astrazione cromatica sviluppata da Rothko e Newman, tuttavia, evitava sia la modellazione che il contrasto e si affidava quasi esclusivamente al colore e alla luce, per creare uno spazio atmosferico risonante. E ora, il recente lavoro di Ron Davis, Darby Bannard, Frank Stella e Jules Olitski, tra gli altri, stabilisce un tipo di spazio che non dipende né dal modello di chiaro e scuro caratteristico dell’arte decorativa né dagli strati di colore sovrapposti dello spazio atmosferico. Sebbene lo spazio del loro lavoro debba essere descritto come illusionistico, cioè non piatto come lo spazio dell’arte decorativa, non contraddice tuttavia l’effettiva piattezza del supporto su cui è realizzato, il che potrebbe sembrare un paradosso […].

In questi casi è necessario che le illusioni nei dipinti appaiano reciprocamente contraddittorie, perché fintanto che riceve informazioni contraddittorie, la mente capisce che si tratta non di uno spazio reale ma di uno spazio immaginato, puramente artificiale. L’irrazionalità, o apparente irrazionalità, paradossalmente diventa l’agente o meglio l’evidenza di una concezione razionale piuttosto che il segno di un illusionismo fallito, che è tale solo se giudicato dai canoni della pittura rappresentativa, dove andrebbe a significare il tentativo di una prospettiva non padroneggiata. Non ingannando mai l’occhio, il nuovo illusionismo è l’esatto contrario di qualsiasi tipo di trompe l’oeil, che significa ingannare sulla vera natura dello spazio.

Al contrario, il nuovo illusionismo fa ogni sforzo per assicurare che la mente capisca subito che non c’è spazio dietro il piano dell’immagine, vale a dire che lo spazio creato sulla superficie dell’immagine è una proiezione puramente immaginativa che non ha alcun rapporto con la realtà […].

Problems of Criticism IV: the politics of part, part I, 1968

Paradossalmente, il momento in cui l’arte viene epurata dal contenuto politico coincide con il momento in cui la critica d’arte inizia a concentrarsi sui temi della “dialettica” del modernismo e della “radicalità” di specifici pittori. Questi termini politici chiaramente marxisti guadagnano rispettabilità in una discussione critica per la loro eredità nella storia dell’arte: Heinrich Wölfflin aveva costruito un sistema di analisi su un modello hegeliano che è la base dell’interpretazione del modernismo di Clement Greenberg […] Il fatto che la progressione ciclica di Wölfflin fosse già stata sostituita nel XIX secolo da un approccio evolutivo più sofisticato come quello di Alois Riegl non sembra disturbare nessuno.

[…] Così la sublimazione delle questioni politiche all’interno di un contesto estetico rende possibile ignorare (o addirittura invocare) il contenuto politico dell’arte. […] rende persino possibile discutere questioni critiche con una passione e una indignazione una volta riservate alle questioni di vita e di morte. Ma l’arte non è mai stata una questione di vita o di morte e rivolgerle l’intensità e il senso di urgenza che dovrebbero essere riservati alle questioni di vita e di morte è ripugnante […]. È vero, naturalmente, che l’arte ha già usurpato la religione come rifugio dello spirituale. Ora deve sussumere anche l’etica e la politica? Anche se fosse possibile, sarebbe desiderabile? […].

(Le traduzioni italiane effettuate dagli articoli originali in inglese sono nostre)

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