25 luglio 2017

Il festival del rischio

 
Parla Barbara Boninsegna, direttrice artistica di Drodesera: ecco le parole per raccontare 37 anni di ricerca, azioni e visioni. Partendo dalla montagna

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Arrivare a Dro da Roma è un viaggio che prevede diversi cambi di mezzo: due treni, un bus e infine una macchina, che ti recupera e ti porta in quella che da 17 anni è la casa del team che lavora, tra le altre cose, al Festival DRODESERA. Da dietro la fitta vegetazione appare una grande centrale idroelettrica, una struttura compiuta nel 1906 e in parte ancora in funzione. Ci si lascia alle spalle la Parete zebrata, meta di alpinisti e climber. 
L’imponenza della montagna conduce tutti quelli che si confrontano con lei alla chiarezza, e appena entrati i dubbi vengono subito chiariti, almeno nella definizione di cosa non ci si deve aspettare: sulla facciata della Centrale si legge This is not a Castle. Non siamo in un luogo immobile, sospeso e fissato nella storia, qui le cose accadono, lo spazio e il tempo si modificano con le necessità di chi lo abita, sempre nel rispetto della montagna. 
Chi percorre questa strada e la pista ciclabile rallenta con curiosità, ma solo stando dentro queste grandi mura si ha la possibilità di capire le motivazioni che conducono questo coraggioso gruppo di professionisti, capitanato da Dino Sommadossi e Barbara Boninsegna, a lavorare, ogni anno da 37 anni, a uno dei festival più interessanti nel panorama italiano e internazionale. 
In una lunga chiacchierata con Barbara Boninsegna, all’ombra del parco di Centrale Fies, abbiamo provato a capire quali sono le parole su cui questo progetto si fonda. 
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Live Works vol 5, studio visit, foto di Roberta Segata
Credo che uno dei nodi centrali nel vostro lavoro sia la sperimentazione, intesa come tentativo o esperimento, momento fondamentale del processo creativo e artistico, da cui tutto si genera. 
«Non so se si chiama sperimentazione, noi amiamo chiamarla curiosità per il presente, per il contemporaneo. È fondamentale per noi essere costantemente e continuamente in ascolto di quello che succede, credo che questo sia quello che ci ha salvato in questi anni. Poi c’è qualcuno che ci ha definito avanguardisti, un termine che pensavo non si usasse più, ma non so se si chiami ricerca o avanguardia, di sicuro so che la spinta ci viene data dalla voglia che abbiamo di  capire che cosa sta succedendo nel mondo. Solo così riusciamo a portare in questo luogo quelle che sono le istanze contemporanee, sotto tutti i punti di vista. Viviamo nel mondo e non ci adagiamo, non possiamo non vedere che cosa sta succedendo, sia politicamente che socialmente, ma anche artisticamente, funziona alla stessa maniera. Credo che la nostra fortuna sia quella di essere costantemente figli dei tempi in cui viviamo, non siamo legati a niente, pur avendo rispetto per le tradizioni, per la terra in cui viviamo, c’è continuo cercare di capire quello che sta succedendo fuori da qui, per poi tornare. La parola ricerca non ho mai voluto accompagnarla alla parola Teatro, trovo corretto usarla se riferita agli artisti, loro ricercano. Questo a Fies viene fatto grazie al luogo, grazie alla volontà di stare tutto l’anno a contatto con loro, e poi a rischio di esser ripetitivi, grazie alla curiosità nell’intercettare quello che può essere interessante per noi». 
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Mykki Blanco, foto di Alessandro Sala
Fies da sempre è un incubatore. Avete sempre posto l’attenzione sui progetti degli artisti, sostenendone la produzione e la circuitazione, e questo si riflette nelle loro opere.
«Mi auguro che l’aria che respirano qui gli artisti che lavorano con noi si ripercuota nei loro lavori, noi ci mettiamo in ascolto e diventiamo degli strumenti che loro possono usare, diamo delle opportunità e speriamo che loro le colgano e le sfruttino al meglio. È un lavoro che parte 37 anni fa ed è sempre stata una nostra vocazione, anche quando ancora non c’era la Centrale e lavoravamo nei cortili.  Dino ama sempre dire che Il Vajont di Marco Paolini è nato qui, in un cortile di Dro. C’è sempre stata un’attenzione verso quelle che potevano essere le nuove forme di arte dal vivo, dal teatro civile alla danza, a cui abbiamo dedicato molta attenzione in un momento in cui faticava a mettersi sul mercato e farsi vedere da un pubblico. Abbiamo capito poi che la danza nei cortili non funzionava, e ci siamo inventati, insieme all’Associazione Marató de l’Espectacle di Barcellona e ad Ana Barata di Lisbona, questa cosa che si chiamava “Le città che danzano”. Mettevamo i coreografi in rapporto con l’architettura e, di conseguenza, con un pubblico perlopiù di passaggio, questo lo abbiamo fatto per 10 anni e adesso esiste Danza Urbana. Ad un certo punto abbiamo abbandonato questo progetto perché il lato positivo e allo stesso tempo negativo della curiosità è che si continua a cercare, e dopo un po’ hai l’impressione che la tua funzione in quel campo si sia esaurita, e che sei soddisfatto del punto di arrivo e pronto ad un’altra sfida. Ad esempio abbiamo fatto un lavoro di Virgilio Sieni in un cortile a Dro ed eravamo in 5, poi l’anno dopo lo abbiamo fatto lavorare nella piazza e infine, dopo un paio di anni, nel 2000, abbiamo aperto un’edizione del festival con una sua personale. Il pubblico ormai aveva imparato a conoscere questa forma artistica, ostica secondo molti, ma che in realtà non lo è, basta avere un approccio sereno allo spettacolo».
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Philipp Gehmacher, walk+talk no. 22, foto di Alessandro Sala
Lavorare in provincia è un po’ croce e delizia per un festival di questo calibro. Quale rapporto avete con il territorio?
«Viviamo in paese che solo negli ultimi anni è cresciuto demograficamente, raggiungendo circa i 5mila abitanti, fino a 10 anni fa eravamo in mille. Il comune è un piccolo comune che nei giorni del festival viene invaso dal nostro pubblico, il primo rapporto a cui guardare è quello che riguarda l’indotto che portiamo nell’area. A fronte di 300mila euro di contributi che riceviamo dagli enti pubblici, ne riversiamo circa il doppio nell’area, a Dro in questi giorni arriva il turista culturale che non avendo Musei da visitare si sposta nella valle, tra ristoranti e cantine. Una cosa che non è consolidata come vorrei è il rapporto con le istituzioni, vorrei smettere di fare battaglie per raccontare il valore di questo luogo, non dico di voler smettere di fare battaglie, ma vorrei dopo 37 anni mettere tutta la mia forza nel progetto e non preoccuparmi di queste relazioni così complicate, questo non è solo un problema locale, ha a che fare con un sistema Paese che non funziona. Amo moltissimo poter pensare che qualcuno arrivi qui e rimanga per un po’, non solo chi scrive, ma i anche politici, vorrei che venissero nel momento del lavoro, solo così puoi renderti conto del valore di ciò che accade. Mi piace quando passa qualcuno di Dro che magari non viene al festival, ma che invitiamo a vedere lo spazio, mi piace questa dimensione “da bar”, ci permette di mantenere un legame molto forte con la comunità in cui viviamo. Fies è principalmente un luogo dove nasce il confronto». 
Pensi che sarebbe stato diverso il festival se fosse stato in un altro posto? Ad esempio in una grande città…
«Si, forse sarebbe stato diverso. Ma non credo più facile, perché subiamo la difficoltà di fare un festival in provincia, dall’altra parte viviamo la facilità di essere stati unici per molto tempo. In una città più grande c’è molta competizione. Però se mi chiedi quanto vale questo posto, ti dico tantissimo. Quanto vale per i residenti star qui? Secondo me tantissimo, non è un luogo privo di stimoli, ma qui non ci sono distrazioni, è un po’ come vivere in un ritiro, che si accende durante il festival».
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Sarah Vanhee, The Making of Justice, foto di Alessandro Sala
Il vostro pubblico quindi è di addetti ai lavori?
«Spingiamo da sempre per una eterogeneità del pubblico, ma di un pubblico, attento, interessato, affamato, curioso, attivo. La qualità pretende cura e attenzione e rispetto da entrambi i lati. Quindi più che un pubblico di addetti, che certamente sono presenti, andiamo alla ricerca di un dialogo con i pubblici che possano in qualche modo servirsi delle visioni, delle pratiche e delle tematiche affrontate dall’artista. Ecco che modalità di espressione, intensità del pensiero, rielaborazione della realtà e dei suoi paradigmi, svisceramento delle categorie diventano fonte di ispirazione per designer, architetti, policy maker, studenti, insegnanti, grafici, e per chiunque abbia la necessità di confrontarsi con l’attualità attraverso la lente di ingrandimento, il riflettore, il fuoco che l’arte permette di attivare». 
Il luogo, la programmazione, il lavoro con i giovani artisti, ogni cosa che scegliete sembra accogliere un alto potenziale di rischio.
«Una delle parole che fonda questo luogo, oltre che la curiosità è il rischio, come se non riuscissimo a vivere se non sempre a rischio. Non lo cerchiamo, ci capita addosso, ma le cose che ci piacciono sono in fondo quelle rischiose. Non so esattamente perché forse anche per il luogo in cui viviamo, qui tutto è bellissimo, ma è anche molto tranquillo e sereno. E abbiamo bisogno di rischiare per sentirci vivi. Forse è sopravvivenza».
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Leandro Nerefuh/Ribidjunga Cardoso, Orphic Exuberance Versus Solar Capitalism, foto di Roberta Segata
Quanto conta la collaborazione con il team? 
«Non so se sono una brava leader, anche se il leader maximo è Dino Sommadossi,  ma se il concetto di leader passa anche attraverso la capacità di confronto, delega e valorizzazione di dipendenti e collaboratori,  allora sì. L’idea di essere affiancata da persone più giovani mi piace molto, e mi fa sentire viva. Mi piace costruire con loro, spero che si veda questo lavoro di costruzione di cose diverse. Per anni la direzione artistica è stata nella mani di Dino, che poi l’ha passata a me, io ho lavorato per un periodo con Jacopo Lanteri, poi è arrivato Live Works, che era già pensato come una co-curatela assieme a Simone Frangi, Daniel Blanga Gubbay e Denis Isaia,  e infine è arrivato Filippo Andreatta a lavorare con me al Festival. Attivare collaborazioni mi è da stimolo, ed è una fortuna, perché il rischio di accomodarsi in una situazione ormai consolidata mi spaventa molto, anche se in realtà che non riuscirei a stare a lungo in un luogo, anche se amo lamentarmi e dire che non ne posso più, le mie pause non durano più di cinque giorni, poi la mente riprende a lavorare!».
Ma veniamo al Festival, questa è un’edizione che sta molto sull’attualità e sulla politica, si parla di migrazioni, di conflitti, di tematiche legate al genere…
«Non mi sono mai posta la missione di fare un festival che parlasse di politica,  ma che la facesse in maniera attiva: l’arte è politica, non solo nelle tematiche scelte dagli artisti, ma anche nelle modalità di produzione e gestione di un sistema da parte degli operatori culturali. Io e Dino veniamo dai movimenti, dalla politica attiva, ad un certo punto l’interesse per la comunità e le urgenze dell’attualità si sono riversate nel nostro lavoro.  evidente che la politica la stiamo facendo tutti i giorni, cominciando dal prender possesso di questo spazio; che è già un atto politico. Forse non abbiamo usato i codici e i linguaggi retorici della politica,  ma ci siamo costruiti, lottando un’indipendenza, lavorando nel rispetto degli altri. Occupandosi di reale difficilmente si è apolitici. E poi cosa è politica? Invadere i cortili con la danza, formare e far crescere un pubblico è politica, portare in superficie tematiche attuali attraverso il linguaggio dell’arte e del teatro è politica. Credo che il nostro festival sia sempre stato politico». 
Roberta Pucci

In home page: Barbara Boninsegna foto di Dido Fontana

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