26 novembre 2007

IL (GRATTA)CIELO SOPRA NEW YORK

 
Mentre nella Grande Mela è appena stato inaugurato il grattacielo del New York Times e a Torino si discute sul progetto di un altro edificio alto quasi duecento metri, abbiamo incontrato l’artefice di entrambi. A Genova, nello studio di Punta Nave, per parlare con Renzo Piano. Fra occupazione universitarie, giornate in cantiere e botteghe postmoderne...

di

“Apparirà nelle strade come una grande lanterna magica, continuamente accesa e costantemente in attività”, affermava Renzo Piano al momento della presentazione del suo progetto per la torre del New York Times. Lunedì scorso, dopo sette anni, la sede di uno dei più importanti giornali al mondo è stata ufficialmente inaugurata: un grattacielo alto più di 300 metri, la cui superficie in acciaio e vetro, coperta da una guaina di profili in ceramica, riverbera le molteplici variazioni della luce di New York.
Anche qui, l’architettura di Piano si fonda sulla leggerezza raccontata da Italo Calvino: l’edificio, che sembra fluttuare nell’aria grazie a un complesso gioco di trasparenze, si poggia sul suolo urbano quasi in silenzio, comunicando con la città in una perfetta osmosi tra spazio interno ed esterno.
Per l’occasione abbiamo incontrato Renzo Piano nel suo studio genovese, Punta Nave, per parlare della sua ricerca, del modo in cui l’architettura si intreccia con le altre arti, in un dinamico processo di rimandi, intersezioni e contaminazioni.
Renzo Piano - The New York Times Building - 2007 - photo Michel Denancé
L’architettura è come un iceberg dove la parte visibile è dieci volte più piccola di quella che non vedi, che dal basso la sostiene. Affonda le sue radici nell’antropologia, nella sociologia, nell’economia, nella scienza, nella storia, nella memoria, e poi ovviamente nella poesia, nell’espressione artistica. È fatta di mille sfaccettature. In questo senso la mia curiosità, mi è di grande aiuto. Io non riesco a fare architettura senza avvicinarmici quasi guardingo, andando a cercare tutti quegli ingredienti che intuisci daranno sostanza al tuo operare. Ogni volta che mi viene affidato un nuovo incarico mi reco più volte nel luogo che ospiterà il mio intervento, passeggiando con le mani in tasca, per carpirne i segreti, tendendo l’orecchio alle piccole voci. Questo è il mio modo per rifuggire l’accademia, per non cadere nella tentazione, sempre in agguato in questo mestiere, di ripetersi, di diventare autoreferenziale. L’unico modo per evitare questo rischio è quello di infilare il naso testardamente in tutto ciò che sta intorno l’architettura. Solo così facendo, la sperimentazione di nuove idee diventa un atto naturale, perché il progetto è un’avventura di cui ogni volta cambiano i fattori. E questo devo dire che l’ho imparato anche dai miei amici musicisti, letterati, da cui ho preso l’abitudine di raccogliere annotazioni su quello che mi colpisce. Italo Calvino ad esempio, che riempiva i foglietti ogni giorno di pensieri. O Luciano Berio che annotava musica dalla mattina alla sera. Così anche io ogni mattina mi metto in tasca un foglio vuoto e la sera è sempre pieno di appunti. Per questo motivo, qui a Genova ho voluto costruirmi uno studio completamente fuori dal mondo, in cui nascondermi per pensare, riflettere, trovare un momento di silenzio. Renzo Piano - The New York Times Building - 2007 - photo Michel DenancéNon basta passare il tempo a raccogliere informazioni, hai bisogno anche di un momento di calma per metabolizzare, ruminare. La nostra cultura è ormai tutta basata sull’informazione, sul nutrirsi, sul raccogliere, ma io mi chiedo: se poi non c’è tempo per riflettere e quindi trasformare le notizie che immagazziniamo in qualcosa di nostro, a cosa serve? Ecco, credo che uno dei problemi fondamentali della nostra società è che si sa sempre di più e si capisce sempre di meno. Un conto è sapere, un altro conto è capire, ossia fare tuo. Capire nel senso nobile della parola.

Pensando a Brunelleschi che iniziò come artigiano di bottega, orologiaio, ha detto che chi comincia da orologiaio può ben diventare artista, ma chi comincia da artista non sarà mai orologiaio…
Questa è una battuta un po’ cattiva che faccio, non perché ce l’ho con gli artisti, piuttosto con gli accademici, con chi pensa che l’idea non sia legata alla sua realizzazione. Ce l’ho con quelli che all’università insegnano a ragazzi di vent’anni a diventare artisti. Li lanciano subito verso gesti eclatanti, alla ricerca dell’ispirazione. Lo trovo spaventoso. Penso invece che, dal punto di vista educativo, sia molto meglio coltivare in loro la curiosità di disubbidire, fornendogli al contempo gli strumenti del mestiere. Ecco perché un orologiaio comincia meglio: conosce la tecnica e, se ha talento, può poi sublimarla in espressione artistica. In questo senso, io sono stato fortunato perché sono nato in una famiglia di costruttori. Fin da piccolo passavo le mie giornate in cantiere. I miei primi progetti erano da costruttore. Avevo nel sangue questa voglia di manipolare la materia ma poi, a Milano negli anni ’60, ho avuto l’occasione di crescere civilmente con le prime occupazioni universitarie. Di giorno lavoravo da Franco Albini e la sera andavo a occupare l’università. Dormivamo sui materassi gonfiabili. Questa cosa non è di secondaria importanza perché sono cresciuto con questo malessere sociale, con questo forte desiderio di cambiare il mondo, una specie di ottimismo folle, di utopia. Questi due aspetti -la voglia di cambiare il mondo che mi deriva dal passare le nottate a discutere all’università e le giornate trascorse tra giunti e putrelle con uno straordinario maestro come Franco Albini- mi hanno allontanato irrimediabilmente dall’accademia, permettendomi di volare più in alto.
Renzo Piano - The New York Times Building - 2007 - photo Michel Denancé
Dopo l’università mi sono trasferito a Parigi e poi a Londra, dove ho incontrato Richard Rogers. Insegnavamo entrambi all’Architectural Association School. Io andavo con gli studenti nel parco, ci portavamo dei materiali e facevamo esperimenti costruendo prototipi d’architettura. Venivano fuori delle strutture alte anche sei metri, che davano l’occasione ai ragazzi di capire le implicazioni spaziali e volumetriche dell’architettura costruita. Io credo che la tecnica, bisogna possederla a tal punto da scordarsela. Poi passano gli anni e riesci a far sì che l’abilità di assemblare elementi si amalgami a tutta una serie di fattori espressivi che fanno dell’architettura una grande, straordinaria arte. Questa mia fondamentale esperienza mi ha condotto a formare il mio studio come una bottega, nel senso classico del termine, la Renzo Piano Building Workshop. Un’idea antica ma anche straordinariamente moderna. Ogni anno tanti studenti vengono da tutto il mondo a fare esperienza qui. Una cosa a cui tengo moltissimo.

Ne deriva un’idea di architettura come processo quasi artigianale, strettamente legato alla sua costruzione, informata però da una costante cifra poetica: la leggerezza. Cos’è la leggerezza in architettura?
Renzo Piano - The New York Times Building - 2007 - photo Michel DenancéHo cominciato a pensare alla leggerezza per gioco. La leggerezza per me all’inizio era l’arte di togliere, di levar peso alle strutture affinché funzionassero meglio. A livello concettuale scoprii poi, anche grazie ad amici che fanno altri mestieri, come il musicista Luigi Nono ad esempio, che la leggerezza è un modo di essere, di comportarsi, è una cifra poetica dell’espressione, un linguaggio. Nella scrittura è quella che lascia dei vuoti tra le parole, tra le lettere, dei punti di sospensione. Sicuramente è più facile far volare una frase, ma nell’architettura diventa una lotta alla legge di gravità. La leggerezza formale in architettura, la cogli se giri nel mio studio. Basti guardare alla luce, alla trasparenza di cui è fatto questo edificio. Mi piace lavorare sulle tensioni, sulle trasparenze multiple, sul complesso rapporto tra il costruito e la natura laddove non è chiaro dove inizia l’uno e finisce l’altra. Come la scrittura, anche la città per essere leggera deve essere pensata con una giusta armonia tra spazi costruiti e spazi vuoti, elementi di discontinuità che permettano di alternare segni forti e momenti di silenzio.

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www.newyorktimesbuilding.com

a cura di emilia giorgi

*estratto dell’intervista a Renzo Piano pubblicata su “Alias-Il Manifesto”, 17 novembre 2007, pp. 2-3

[exibart]

1 commento

  1. Arte-OperaCittà – ricerca dell’identità pura, smarrita – come “Stato ideale” – perché opporsi al progetto, previsto da Renzo Piano a ridosso del centro storico di Torino?

    «Comunicazione»
    di
    Vittorio Del Piano

    §

    «In ogni modo, l’opera d’architettura verticale dello stupendo grattacielo per me è affascinante, ma prediligo fortemente di più il Trullo (dal greco tardo τρουλλος, cupola) costruito, terra terra, ancora oggi in pietra dal “mastro trullaro” pugliese come casa in cui “abitare, vivere e pensare”».

    Ecco perché…
    intervengo per la “critica” di Lucia (Exibart.com, 03/04/2008”). Mi pare che la sig.ra “Lucia” non scriva corbellerie. Alla fine al suo intervento ricorda Antonio Cederna (e Le dico brava!), le discipline che in un tempo relativamente recente abbiamo inventato, gli studi storici, le scienze dell’antichità, l’archeologia, la
    storia dell’arte, l’estetica ci impongono, “se vogliamo veramente essere moderni e civili, di rispettare le testimonianze della storia, di fare cioè quanto non è stato possibile in passato”. Anche questo è il punto, è una validissima ma non specifica ragione per la quale uno debba opporsi al grattacielo. L’immagine della Città (la bella vista con la “Mole antonelliana” con quell’immagine delle Alpi sul fondale), è l’immagine pura che non può essere “obliterata”; ha ragione anche su questo punto Lucia.
    È dal 1973 che io vado ancora sostenendo: “La città se non è per l’uomo non è città / lo spazio urbano deve essere strutturato esteticamente/”. L’immagine presuppone una lettura con l’intervento della nostra percezione, ed esiste un livello di lettura delle immagini, dei significati profondi e cosa esprimono attraverso le barriere delle diverse culture e nelle varie articolazioni del linguaggio visivo. Vediamo che il mondo contemporaneo presenta una gran quantità di vari materiali iconografici, una vasta produzione d’immagini e di forti sollecitazioni sensoriali – visive, auditive, tattili – e sotto il nostro sguardo quotidiano si combinano, con l’enorme influenza che generano su tutti per le diverse virtù e caratteristiche dell’individuo e secondo la natura propria di molte immagini. Lo stesso dicasi per i segni urbani sul territorio già strapieno che, se fosse un tetto, tutti i collassi ci mostrerebbero le macerie del suolo, mentre sono incombenti altri collassi per il troppo «pieno». Ha ragione Gilllo Dorfles con il concetto dell’ “Horror Pleni”: nel suo ultimo bel libro ha centrato con la definizione della “(in)civiltà del rumore”, il nostro contemporaneo modo di vivere, volenti o nolenti.
    La stessa città, oggi, può far “rivivere” l’opera dell’artista nel terzo millennio, per le mutate/mutanti esigenze con quell’arte che deve tessere quotidiani rapporti con la realtà dell’uomo, nello spazio del cielo, della terra e del mare della sua città, in ogni parte del mondo, senza dover alterare i processi esistenziali di ogni essere vivente e né aggravare l’esistenza economica ed estetica del presente.

    Progettare oggi…
    l’“opera” d’arte: perché finisca in un “museo” non ha più senso metterla in “teca”, ma “farla vivere” si. Concepire l’arte per la coesistenza dell’Uomo e della Città ha senso per il presente e per le generazioni future. Il destino dell’arte, perché sussista, non come un “quadro opera” con l’uomo, è farla esistere – sapendo comunicare l’espressione dell’invisibile con l’immagine e il comunicatore è: l’artista puro – come “OperaCittà”, coesistere nella Città e “visibile” come tessuto cellulare puro (e cellula-moltiplicata o moltipiclicabile…), nel suo «spazio urbano», proiettandovi (un unicum “materiale” amalgamatesi con quelli delle altre arti), la percettibilità pura dell’artista della “Città-Opera di Medi-terra-nea” generatrice dello spazio estetico «OperaCittà» del presente e dell’oltre percettivo. Il vettore più puro (immateriale) possibile, deve essere fortemente collegato all’evolutivo sviluppo dell’afflato spirituale dell’Artista-Puro dotato di sensibilità Mediterranea (la Città dell’’Arte Pura). Non è finita l’epoca dei “dispendiosi” musei, anche con costose spese di gestione, come per le verticali “macchine architettoniche” – i grattacieli – (grandi contenitori di tutto: super-mercati, alberghi, vasti saloni, camere, appartamenti, ristoranti, tavole calde griffate, bar, piscine, night, uffici, banche, miniboutique, cinema & teatri, biblioteche, gallerie d’arte, ristoranti, palestre, box office, box auto, ecc., anche se resta segnato nella nostra memoria collettiva quel tragico 11 settembre di New York. Resta indicativo ancora il caso della città di Brasilia), ma li ritengo superati come oggetti e segni urbani nella città d’oggi. Però devo ricordare: proprio il critico, l’esperto d’arte internazionale Pierre RESTANY (…nel 1968, chiuse a Parigi le porte della Galleria d’Arte Moderna… un segno purissimo esteticamente per affermare che, l’arte vive se è nella città), ancora una volta, in una delle sue ultime conversazioni con me sull’arte, mi rivelò che la Corea oggi è il Paese più aperto per la ricerca e per lo sviluppo del futuro dell’arte contemporanea più avanzata” e mi confermò quanto aveva già espresso in una sua nota ultima intervista rilasciata ad un quotidiano: l’artista è un “comunicatore” come “artista-autore“ della CittàOpera, e la CittaOperaMuseo è il luogo degli accadimenti delle nostre azioni e della comunicazione con il linguaggio dell’architettura. Credo fortemente in questa bella visione cosmica, dinamica e pura, scaturita dal colloquio con l’indimenticabile Pierre Restany.
    Bisogna prenderne coscienza in tutti i sensi, maggiormente ora anche per l’accentuarsi dei caratteristici e chiari segnali di crisi economica provenienti da più parti del mondo e che, ogni prudente e sensibile politica culturale deve poter riconoscere, capire e, inoltre, deve considerare ormai finite molte delle originarie funzioni legate ad un “museo tradizionale”, oramai (obsoleto). Mentre dovremmo rivolgere le nostre attenzioni alla città: martoriata dal traffico, dai tanti e forti inquinamenti sonori, da quelli visivi dell’archi-tettura del post-modernismo kitsch, con concetti apparentemente nuovi, ma “scaduti”, replicata – pur se superata – per il forte potere della “globalizzazione estetica che è figlia della globalizzazione economica” e che la potenza diabolica dei mass-media ha contribuito a creare con i corti-circuiti massmediatici con scorie in eccesso, soppiantando molte attività culturali. Ormai occorre sviluppare celermente e più soddisfacentemente ogni funzione vecchia e nuova da offrire ad ogni grado educativo per la socializzazione di massa all’arte (interferendo nell’“Arteidentità”). Per evitare ogni successivo degrado della città, la stessa potenza espressiva “pura” dell’arte va utilizzata in tutti gli ambienti inquinati dagli insensibili (imbonitori e falsificatori del gusto estetico puro), per tenere allenata la sensibilità nella mente e nel cuore di ognuno di noi.

    Lo spazio urbano…
    deve essere strutturato esteticamente per i nuovi apporti percettivi al mondo della Città Contemporanea. Ci vuole la fede profonda della sensibilità mediterranea per la nuova città dell’uomo, che salvaguardi la purezza dell’atto creativo, ne tuteli l’espressività e la comunic/azione “pura”, ne esalti la libertà; bisogna tendere ad un naturalismo estetico nuovo che salvaguardi quella forma d’Arte Pura più vicina all’uomo e che riesca ad essere l’energia di quell’estetica ideale architettata come “opera” nella Città e con la Città, per far sì che (l’azione sensibile) l’operazione combinata “Arteopera”, “Cittaopera” dell’arte pura, si formi e si enuclei permanentemente nell’esistenza dell’uomo e nella vita sociale della sua Città tendente verso l’estetica generalizzata. Desidero rifermi al progetto – del Groninger Museum, Groningen, Olanda – di Alessandro e Francesco Mendini, un esempio di come un’opera d’architettura deve avere in sé l’originalità ideativa progettuale dello spazio urbano interpretato e strutturato esteticamente nella Città…– “Arte-immagine-visibile- espressione dell’invisibile”/crisi e fine del museo tradizionale. Occorre tendere al “Museocittà”/opera in divenire – “Museopuro-MuseoCittà”/arte da fruire, “Arteopera” /Museo Nuovo-Città Nuova con cui comunicare, “Arte-Pura”/artista-comunicazione-superazione-naturacultura, “Spazio urba-no”/Museo-arteinvisibile-visibile come architettuura-comunicazione, “Artericerca”/ricerca della bellezza primordiale della terra madre…, “Arteidentità”/ricerca dell’i-dentità pura smarrita… – così mi pare che voglia rifererirsi, con sensibilità e criterio, anche l’intervento di “Lucia” (di Torino) quando scrive: “gratta-cieli, se si vogliono fare, li si faccino nelle remote periferie dove potrebbero, forse, contribuire anche alla riqualificazione urbana. Ma penso che lì non ci sia alcuna convenienza – né di immagine, né di rendita immobiliare”. A Renzo Piano, noto architetto, noi – di MediterraneArtePura – desideriamo dire che non ce l’abbiamo con quelli che all’università e all’AA.BB.AA. insegnano a ragazzi di vent’anni a diventare artisti, che li lanciano subito verso gesti eclatanti, alla ricerca dell’ispirazione (dell’idea sensibile); lo trovo non spaventoso (come egli ha dichiarato), ma fortemente giusto. Penso invece che, dal punto di vista educativo, sia molto meglio coltivare in loro la curiosità di pensare, ideare e fare opere originali, fornendo loro al contempo gli strumenti dell’imterpretare, capire e inventare, e non di replicare l’esistente.

    Desidero anche far sapere a Renzo Piano…
    che, sono d’accordo con lui quando sostiene: “L’architettura è come un iceberg dove la parte visibile è dieci volte più piccola di quella che non vedi, che dal basso la sostiene. Affonda le sue radici nell’an-tropologia, nella sociologia, nell’economia, nella scienza, nella storia, nella memoria, e poi ovviamente nella poesia, nell’espressione artistica”. Rispetto le sue valide idee e i suoi progetti realizzati – con altis-simi costi, ma l’impresa è impresa non può lavorare sotto costo… altrimenti fa andare in fallimento i piccoli imprenditori e la concorrenza – “visivamente belli”, però per la sua memoria (1), vorrei richia-margli alla mente la città di Bari e il suo stadio, “Stadio San Nicola” – firmato appunto da Piano –, dove una vasta zona archeologica pare sia stata d i s t r u t t a all’epoca della costruzione del suo “progetto” – valido si come idea, ma pare “copiata” (2), (ed anche per la “pianta ellittica” pare si sia ispirato al bel Colosseo), ma nemmeno debolmente innestato alla Città… perché? Poiché la città la intendo come Pierre Restany e anche come Alessandro Mendini (3), aggiungo ancora: il “San Nicola poteva contenere costru-zioni sociali, culturali e altre del tempo libero ecc. ed essere una ”architettura-urbana” anche “dentro” l’«immagine visibile invisibile» della «Città » sita ad una quota più bassa rispetto a quella dello stadio, e (forse) avrebbe raggiunto migliori risultati salvaguardando tutte le testimonianze archeologiche (con un piccolo parco archeologico aperto). In ogni caso rimane un progetto “ancora utilizzabile…” ma, come? Data la velocità di come va la visionica oggi della comunicazione e della immagine nel mondo. E – per l’attraente grattacielo – come non posso essere d’accordo con Renzo Piano quando nell’intervista dice: “Come la scrittura, anche la città per essere leggera deve essere pensata con una giusta armonia tra spazi costruiti e spazi vuoti, elementi di discon-tinuità, che permettano di alternare segni forti e momenti di silenzio”. Anche «Lucia e Renzo», però, devono essere d’accordo con me che l’architettura come “Arte-Pura”, deve essere COMUNICAZIONE/ARTE nella “OPERA/Città” e lo «Spazio Urbano» va interpretato… non va «violentato», per l’uomo d’oggi e per quelli di domani. Infine, vorrei concludere con un verso del Nobel Salvatore Quasimodo: – “Dalla notte che verrà avrò speranza” e con una frase di Giulio Carlo Argan: “La cosa più bella al mondo è capire” – ricordando il mio concetto già precisato nella mostra «15 Tracce di operatori in Puglia» (Pinacoteca Provinciale di Bari, 1973): “Lo spazio urbano deve essere strutturato esteticamente” e va interpretato e non violentato, con le ristrutturazioni e gli sventramenti selvaggi, con le sopraelevazioni abusive, con l’espansione “progettata” e (in)controllata delle zone d’espansione o residenziali speculative fuori città”. E’ da ricordare anche l’accidente «delle case Perotti» alla fine del lungomare di Bari, abbattute (qualche anno addietro) col tritolo come quelle nel Comune di Cesano Boscone (Milano fine Anni 60), ecc, e non è tutto qui.
    Come possiamo far funzionare questa macchina-grattacielo di ultima generazione rispettando lo spazio urbano… ma diciamo anche il «deus loci»? Quale punto d’incontro tra artisti-architetti-designer (con arti e tecniche nel dibattito internazionale), in un momento critico dell’innovazione e dell’aggiornamento delle varie tendenze? Abbiamo la capacità far funzionare meglio tutto l’organismo città e anche la qualità della vita dell’uomo? Il mio pensiero ritorna a quell’Hippodamos di Mileto, in ciò che sosteneva con gli antichi greci (4), le testimonianze di quella civiltà sono ancora visibili nell’intero territorio della Magna Grecia e non ancora tutte studiate e comprese. In ogni modo, l’opera d’architettura verticale dello stupendo grattacielo per me è affascinante, ma prediligo fortemente di più il Trullo (dal greco tardo τρουλλος, cupola) costruito, terra terra, ancora oggi in pietra dal “mastro trullaro” pugliese come casa in cui “abitare, vivere e pensare”.

    3 aprile 2008.
    Vittorio Del Piano
    delpiano.artepura@libero.it

    (1). Cfr. La Gazzetta Del Mezzogiorno – 15. 09. 2005 – (…). E’ più difficile è che ricordasse un concorso nazionale per un teatro all’aperto, che si tenne a Pescara nel 1958 e di cui riferì Pasquale Carbonara su «L’architettura. Cronache e storia», la rivista di Bruno Zevi. Eppure nel progetto vincitore (degli architetti Mariano Pallottini, Antonio Castaldi Madonna e Filippo Mariucci) c’è l’anticipazione di un aspetto fondamentale della composizione dell’organismo architettonico di Piano: la divisione degli spalti in due corpi distinti. Una prima gradinata che poggia sulle pareti del cratere artificiale e, al di sopra di essa, separata dalla terra, galleggia nel vuoto la teoria dei 22 petali di differente misura (come previsto in un altro progetto del concorso pescarese). È proprio l’idea di staccare l’edificio dal suolo, sospenderlo sulla linea dell’orizzonte quasi in un armistizio con le leggi della gravità, ciò che induce il critico francese Jean François Pousse a definire lo stadio barese «Il grande soffio» (…).
    (2).Ibidem. (…), Si è detto che lo stadio barese è stato «copiato» da quello tunisino di El Menzah, costruito nel 1967. Ma la somiglianza non va oltre la suddivisione degli spalti in settori. Una soluzione analoga era già stata adottata da Gino Valle nel 1971 per il progetto (non realizzato) dello stadio di Udine, strutturato «come sommatoria e giustapposizione – scrive Pierre-Alain Croset – in una monografia di Electa – di singole unità di 800 spettatori (?) un modulo che consenta una grande flessibilità di realizzazione».(…).

    (3). Cfr. Alessandro Mendini, “Museo all’aperto”, 2007 – Atelier Mendini. «La città può essere letta, vissuta e interpretata come un “museo all’aperto”. La scena urbana ha un obiettivo preciso, consiste nel progetto del bello e delle forme degli spazi pubblici. A questa utopia del bello nella città ci riferiamo con l’idea di andare oltre all’idea tardo funzionalista dell’arredo urbano. Le piazze, le strade i mercati, le passeggiate e i loro allestimenti vanno considerate come opere estetiche, come spezzoni di teatro esterno dotato di senso emotivo e antropologico, adatti a coinvolgersi profondamente con gli abitanti, ad essere dei palcoscenici per i cittadini. L’architetto, il designer, l’artista, lo scenografo, il grafico, il progettista delle luci, sono gli operatori di queste opere integrate, siano esse grandi o piccole. Per trovare la sua motivazione profonda, la radice del suo essere, il disegno urbano deve attingere e collegarsi a culture precedenti a quelle industriali. In sostanza, l’arredo della città deve porsi come scenografia. Si tratta del preciso genere di un’architettura non destinata a contenere, fatta di quinte, di pavimenti, di chioschi, di singoli oggetti, tutto inteso come opera d’arte: come MUSEO ALL’APERTO. I giardini barocchi, le fontane di Roma, le piazze medievali, gli spazi zen sono i referenti lontani di questo atteggiamento progettuale. E poi la presenza di opere d’arte nella città, un sistema di punti nodali ad alta intensità emotiva, adatti a fare da referenti emblematci per il cittadino che si deve spostare: un patch-work estetico e visivo, ed ancora ripeto: un “museo all’aperto”».

    (4). Cfr. Vittorio Del Piano, “Per la fondazione di Mediterrananea “ – «ASILO-ESILIO», (Manifesto dell’Arte Pura ), 1986. La Città dell’Arte-Pura, documenti. «“Nel bacino del“Mediterraneo” è sorta “la civiltà”(…) Il Mar Jonio“accarezza” le prime città “con un nuovo modello urbano” introdotto da Hippodamos di Mileto: colui che inventò le tracce geometriche delle città…, l’uomo che introdusse l’angolo nell’architettura, negli cambia la funzione di questo angolo. Con Hippodamos l’angolo cambia regole, desacralizzato, egli organizza la città in sistema e stabilisce la residenza umana su di una terra nuova, quella dei matematici, egli non fu solo architetto di genio, fu uno spirito puro, multiforme, un sociologo, un teorico politico, etico e metaforico, un tantino utopista, il primo artista puro. Egli non sottomette alla legge geometrica un tempio o un monumento, ma il disegno stesso o della città, le sue strade, le sue piazze, le sue abitazioni e, i suoi cittadini. E’ colui che impose l’ordine della razionalità alla dimora degli uomini. Ma, oggi sono arrivato a credere anche, che l’uomo non debba essere sempre razionale».

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    © 2008 – by (Vittorio Del Piano cell.328-3187713), Atelier MediterraneArtePura – Grottaglie-Taranto-Nizza.

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