05 gennaio 2015

L’intervista/Christian Omodeo

 
Una storia di nome street
Origini, artisti, luoghi, fatti, mercato e futuro. Insomma, tutto quello che bisogna sapere sull’Arte Urbana

di

Street art, graffiti writing, festival, mostre e portali web. Tutti parlano di arte urbana, ma cosa si sa davvero di uno dei fenomeni artistici più in vista del momento? Ne abbiamo parlato con Christian Omodeo, specialista franco-italiano di Urban Art (con un dottorato alla Sorbonne di Parigi e un’esperienza come ricercatore presso l’Institut National d’Histoire de l’Art), nonchè curatore freelance. Nel 2012 Omodeo fonda il portale web Le Grand Jeu, punto di riferimento per la critica d’arte e l’informazione street internazionale.
Come nasce e quali sono le tappe più significative dell’evoluzione della Street Art? 
«La Street Art non è un movimento organico. Non esistono un manifesto o una mostra che permettano di datarne con precisione l’origine. Direi che quello che oggi intendiamo generalmente con Street Art è una corrente nata durante gli anni ’90. Appare in Nord-America e in Europa, il che ne evidenzia fin da subito la natura occidentale in senso largo, a differenza del graffiti writing che è invece un puro prodotto americano, nato nei sobborghi di Philadelphia e New York sul finire degli anni ’60 e importato in Europa durante gli anni ’80. Parlare di Keith Haring e Jean Michel Basquiat come padri fondatori della Street Art – nonché del graffittismo – è un falso storico cristallizzatosi negli anni ’80. Haring, Basquiat, come anche Ronnie Cutrone e Kenny Scharf, furono personaggi chiave, ma a loro va soprattutto il merito di aver fatto da collante tra realtà come quelle che diedero vita al Times Square Show del giugno 1980 e il mondo della factory di Warhol e delle gallerie importanti di Manhattan. Vista in quest’ottica, la Street Art nata negli anni ’90 diventa l’evoluzione di un discorso intrapreso ben prima che Shepard Fairey, meglio noto come Obey, o Banksy iniziassero a attaccare posters e stickers o a dipingere stencils in strada. Il legame forte che la prima generazione di street artists ha avuto con il graffiti writing è un elemento indiscutibile, ma le fonti di ispirazione di questo movimento sono molto più articolate e aspettano ancora di essere identificate. La prima metà degli anni 2000 è un susseguirsi di mostre internazionali come Backjumps a Berlino, Ill Communication a Manchester, Nusign a Parigi o The Urban Edge a Milano, di cui oggi si parla pochissimo, ma che sono delle tappe fondamentali nella storia di questo movimento. Nel 2007, il mercato scopre Banksy cambiando per sempre le regole del gioco in strada».
Il ritratto di Obama realizzato da Shepard Fairey e entrato nelle collezione della National Portrait Gallery di Washington nel 2009 copyroght The Boston Globe
Quali sono le città più all’avanguardia nella produzione street e quali sono le opere da non perdere?
«Negli anni ’90 e durante i primi anni 2000, la Street Art ha avuto molte capitali, connesse tra loro tramite internet grazie a siti come Fotolog, Wooster Collective o Stencil Revolution. San Francisco, Los Angeles, New York, Parigi, Amsterdam, Barcellona, Londra, Berlino, Milano sono state il teatro dei primi passi di questo movimento. Oggi la situazione è molto diversa. In Europa, Berlino occupa senz’altro il primo posto, anche se la qualità degli interventi in strada è molto variabile. Parigi e Londra sono le due capitali del mercato della Street Art, ma hanno muri molto più puliti rispetto a dieci anni fa. Stavanger, Lisbona e alcune città polacche sono all’avanguardia. In Italia, Torino sembra essersi arenata dopo essere stata una delle realtà più interessanti a livello continentale, anche grazie al dialogo instaurato tra associazioni e istituzioni. Roma si è così ritagliata un ruolo di primo piano, al fianco di realtà più periferiche come Memorie Urbane ».
L’attenzione di gallerie e musei e la nascita di un collezionismo di Street Art ne hanno condizionato l’evoluzione?
«Sicuramente, ma serve prima chiarire un punto. A differenza del graffiti writing, che si autodefinisce una disciplina e che nega nella maggior parte dei casi la propria natura artistica, gli street artists hanno sempre rivendicato il proprio agire come arte e prodotto, fin da subito, sia opere per il mercato che per la strada. Dimentichiamo troppo spesso che si tratta di artisti nati e cresciuti ai margini del mondo dell’arte, che non avevano accesso a borse di studio o programmi di residenza. Vendere opere era per loro l’unico modo per finanziarsi. Detto ciò, l’attenzione delle istituzioni e del mercato ha sicuramente modificato le gerarchie interne a questo movimento dopo il 2007, proiettando Banksy, Kaws e JR – gli ultimi due entrambi rappresentanti dalla galleria Perrotin di Parigi – in una cerchia molto ristretta e ricercata di artisti internazionali. Shepard Fairey, Os Gêmeos, Swoon, Zevs, Faile e Invader sono ormai delle certezze sia dal punto di vista artistico che finanziario, così come quegli artisti che hanno mosso i loro primi passi nel mondo del graffiti writing come l’americano Futura 2000 o l’europeo Boris ‘Delta’ Tellegen. In questa situazione, l’interesse crescente delle istituzioni internazionali accelera un percorso di analisi di questo movimento, come dimostrano alcuni recenti progetti espositivi come Language of the Wall al Pera Museum di Istanbul o il Lasco Project al Palais de Tokyo a Parigi. Un motivo in più per dispiacersi della mancanza di mostre di livello internazionale sviluppate negli ultimi anni all’interno della pur ricca rete dei musei e centri d’arte italiani».
Una foto di una delle pareti dell'Urban Edge show con gli interventi di Blu, Miss Van, Alëxone, Galo e Ozmo
Il 2014 ha visto la Street Art protagonista di festival, eventi, mostre temporanee e iniziative museali in giro per il mondo. Qual è il motivo?
«Direi che sta semplicemente arrivando a maturazione un percorso generazionale iniziato alla fine degli anni ’90. Finalmente, si dà la parola a una cerchia internazionale di artisti e di curatori che si sono fatti portatori di nuove esigenze e di nuovi approcci in campo culturale, trovando dapprima una resistenza fortissima e poi un interesse legato soprattutto alla possibilità di declinare commercialmente il fenomeno dell’Urban Art – etichetta sotto la quale vengono riuniti oggi il Graffiti Writing e la Street Art. Parigi si è ritagliata un ruolo di primo piano in questo contesto, grazie ad una rete di gallerie e di case d’asta e al sostegno di alcune istituzioni. Basti pensare alla scelta di José-Manuel Gonçalvès, direttore del 104, di incentrare la programmazione dell’ultima Notte Bianca attorno agli interventi di alcuni artisti come Swoon, Mark Jenkins, L’Atlas e Sambre».
L'intervento di SP38 nell'ex-piscina dello Stattbad convertito in spazio espositivo per l'Urban Art, copyright Openwalls
In Italia l’autunno si è aperto con la presentazione del festival Outdoor, con la conferenza The street is changing al MAXXI, a cui hanno partecipato diversi operatori del settore. In questo caso le parole d’ordine sono state: andare oltre, recuperare l’effimero, eliminare le etichette. La galleria Lazlo Biro ha addirittura deciso di trasformarsi in biblioteca per invitare gli artisti a studiare. Che ne pensi?
«Si tratta di qualcosa di naturale e direi anche di atteso. Oggi, i curatori e gli organizzatori di eventi che operano in questo settore devono rispondere a una domanda crescente da parte di istituzioni pubbliche e mercato dell’arte. Si è assistito, a partire dalla metà degli anni 2000, alla nascita di progetti che hanno avuto il merito di indagare da un punto di vista critico questi movimenti e di valutare i percorsi di centinaia di artisti. Le prese di posizione sempre più nette da parte dei curatori e degli organizzatori negli ultimi due/tre anni rispecchiano l’emergere di letture diverse, affini come antitetiche, ma hanno comunque un unico comune denominatore: individuare se e come questi movimenti hanno riscritto la storia e le pratiche dell’arte negli ultimi trent’anni».
Crossboarding: an Italian Paper History of Graffity Writing
È uscito da poco il tuo libro Crossboarding: an Italian Paper History of Graffity Writing, frutto di una ricerca lunga ed appassionata. Perché è ancora così interessante parlare di graffiti?
«Perché il graffiti writing fu accolto in Europa e da parte del mondo bianco americano come una vera Avanguardia, e non come un fenomeno di moda o giovanile. L’interesse per questa pratica sorge in anni in cui il Situazionismo da una parte e il Marxismo dall’altra avevano preparato una generazione intera non solo a scrivere sui muri, ma anche ad analizzare il portato culturale delle scritte murarie. Non a caso, nel 1980, Armando Petrucci conclude La Scrittura. Ideologia e Rappresentazioni, il suo studio dedicato sulle iscrizioni nello spazio pubblico tra l’XI e il XX secolo, con una breve analisi delle scritte politiche dei movimenti studenteschi alla Sapienza e dei graffiti newyorkesi. Quando si studia la ricezione delle pratiche artistiche urbane attorno al 1980, ci si imbatte in un vero e proprio dibattito critico che è purtroppo andato scemando sul finire di quel decennio. Riprendere a parlarne oggi è fondamentale, perché crea un legame tra la riflessione di allora e le analisi approfondite che una nuova generazione di critici e curatori sta dedicando a questi fenomeni che hanno trasformato il nostro modo di vedere e di pensare lo spazio pubblico».
Mariangela Capozzi

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui