25 novembre 2012

L’intervista/Gianluca Ranzi Critico di lungo corso e borderline

 
Figura eclettica e per certi versi atipica nel mondo dell’arte, Gianluca Ranzi è un curatore che si tiene lontano dalle specializzazioni, preferendo bolinare tra mari (e marosi) diversi. E non ha neanche i “suoi” artisti preferiti. Ha lavorato, tra gli altri, con Wolf Vostell, Yoko Ono, Urs Luthi, Daniel Spoerri, fino a Goldiechiari e Michele Zaza. Perché forse, come suggerisce lui, tutto nasce da Fluxus

di

Gianluca Ranzi è curatore, critico, studioso ed organizzatore di eventi, in continuo sconfinamento tra le arti visive, il documentario, la letteratura e la musica. Il suo lavoro multidisciplinare lo ha portato ad essere direttore artistico della Fondazione Mudima di Milano dal ’96 e, tra altri progetti, a co-curare, insieme ad ABO la Fluxus Biennal  per l’Auditorium-Parco della Musica di Roma, a curare la sezione arti visive del Festival di Ravello e ad essere direttore della Galleria M3 ad Anversa (2004-2009). Lo abbiamo incontrato in occasione della mostra di Alessandro Verdi a Berlino, negli spazi Halle Am Wasser dell’Hamburger Bahnhof.
Partiamo dal presente, come è nata la mostra di Alessandro Verdi negli spazi  Halle am Wasser 3 dell’ Hamburger Bahnhof?
«Alessandro Verdi lavora da una decina d’anni con Mudima, la nostra fondazione milanese e ne abbiamo seguito l’evoluzione con grande interesse. La prima mostra che organizzai, curata da Philippe Daverio e Lorand Hegyi, è stata a Milano nel 2001, ma è a partire dal 2007, quando ha preso parte alla Biennale di Venezia di Daniel Birnbaum, che Alessandro ha cominciato un processo di “riduzione” delle forme che lo ha portato all’estrema asciuttezza pittorica del ciclo presentato in questi giorni alla Halle Am Wasser a Berlino. Curiosamente questo processo non ha interessato il ventaglio di tecniche usate, che rimane ampissimo e che spesso convive in una stessa opera. Mi pare che questa acquisita essenzialità si rapporti bene non solo allo spazio ex-industriale in cui è ospitata la mostra berlinese, ma anche a un certo spirito di rigorosa linearità che fa parte del contesto urbano berlinese».   

Da tempo sei impegnato in un lavoro documentaristico ed espositivo intorno al movimento Fluxus, che ha svolto parte importante della sua attività in Germania. George Maciunas, promosse il primo Fluxus Festival proprio allo Staatlische Museum di Wiesbaden, tanti artisti americani e anche alcuni italiani ne hanno fatto parte. Quant’è importante per te il lavoro di ricerca che continui a svolgere intorno a questo movimento? 
«Direi fondamentale e imprescindibile. Sono stato battezzato nel flusso di Fluxus fin dai primi passi nell’arte contemporanea e quell’esperienza ha segnato non solo il mio lavoro negli ultimi quindici anni ma anche il modo di avvicinarmi all’arte e ovviamente alla vita, che in Fluxus sono più che prossime. Quando nel 1998 accompagnai un enorme assemblage di Wolf Vostell da Milano in Estremadura, dove fu installato nel giardino del Museo Vostell di Malpartida de Caceres, dopo tre giorni alcune cicogne fecero un grande nido sulla sommità del MIG sovietico che costituisce l’asse della scultura. Provammo per una settimana a rimuoverlo ma di notte veniva puntualmente rifatto, finché una sera Wolf mi disse: “È inutile, hanno ragione le cicogne, sono contento di avergli dato l’albero di ferro più alto che si potessero immaginare”. L’arte fa sognare anche le cicogne…perché fermarla? Oggi con grande soddisfazione constato come le idee di Fluxus, che non sono mai diventate ideologia, siano state seminali per le generazioni degli ultimi artisti. In questo la critica è arrivata più in ritardo e sono convinto che da questo punto di vista rimanga un’esperienza ancora troppo sottovalutata, o semplicemente non ancora capita».   
Ritorni a Berlino in un’altra veste, dopo aver diretto uno spazio espositivo ad Anversa, ci puoi raccontare quell’esperienza?
«L’esperienza di Anversa è stata fondamentale, almeno per capire che sono un critico d’arte e quasi per niente un gallerista. Penso di aver fatto delle mostre importanti, con installazioni site-specific, mostre quasi museali in cui di commerciale c’era poco. Anche in quella occasione ho cercato il più possibile di collaborare direttamente con gli artisti facendoli venire ad Anversa a lavorare, così è stato con Yoko Ono, Goldiechiari, Michele Zaza, Zhang Xiaogang, Urs Luthi, Daniel Spoerri, Susanne Kutter, Inken Reinert, Philip Corner. Una vera avventura fu quella di riunire di nuovo insieme le opere e i progetti fatti da Gordon Matta-Clark per il suo intervento “Office Oval” del 1977. All’inaugurazione venne anche il carpentiere che lo aveva aiutato a sezionare l’edificio da piano a piano, mentre Flor Bex, il direttore del ICC di allora che aveva seguito e patrocinato l’intervento, mi prestò un rarissimo video di Matta-Clark impegnato a tagliare i pavimenti e a “sfogliare” l’edificio come una cipolla».  

Che significato ha per te lavorare in borderline tra galleria, fondazione e spazio pubblico in questo particolare periodo sociale e culturale dove la maggior parte degli incarichi sono decisi dalla politica?
«Lavorare borderline, come dici tu, è l’unico modo in cui mi immagino si possa lavorare oggi. Un curatore che metta in piedi progetti fantastici, ma non abbia nessuna idea di dove o come realizzarli o non sappia dove andare a trovare le sponsorizzazioni necessarie, fa un lavoro a metà. Per quanto riguarda la politica, lavorando all’estero mi sono reso conto che è un vincolo molto italiano, un aspetto di un Paese ancora troppo conservatore dove “l’andare ad accreditarsi a corte” è il mezzo principale per mandare in porto dei progetti, spesso indipendentemente dal loro effettivo valore». 
Quale dovrebbe essere l’approccio del curatore rispetto all’uso dello spazio?
«L’uso dello spazio dipende da cosa si vuol fare e da chi lo fa. Ho lavorato con artisti per i quali lo spazio era una cornice, altri per cui sembrava più importante dell’installazione dell’opera stessa. Personalmente cerco sempre di fare in modo che vi sia un dialogo tra opere e spazio, anche quando il dialogo assume la forma di un contrasto. Ricordo una installazione con Santiago Sierra, un suo pezzo sonoro che enumerava migliaia di desaparecidos e omicidi politici, ambientato in un placido chiostro romanico a Ravello meta di sognanti comitive di turisti. L’effetto e il significato di quel pezzo durissimo venivano amplificati enormemente dallo spazio e dalle sua caratteristiche “emotive”. Bachelard ha osservato come lo spazio non sia solo una questione di vuoto e di pieno, di omogeneità o di dispersione, ma sia anche attraversato sottotraccia dai fantasmi di chi lo abita, anche da quelli dell’arte ovviamente». 

Nel mondo dell’arte quanto è importante la specializzazione rispetto alla diversificazione del proprio lavoro e come cambia nel tempo il ruolo del critico d’arte?
«La specializzazione è importante e necessaria fin quando non fa perdere di vista la cornice generale. Consente a ciascuno di noi di dare un sapore speciale alle cose che fa, permette di distinguere non solo in merito alla scelta degli artisti, ma soprattutto per quanto riguarda l’angolatura critica che ognuno di noi da all’opera. Il modo in cui io posso concepire un Tableau Piege di Spoerri può non essere lo stesso di un altro critico d’arte e il bello sta proprio qui. Ogni epoca aggiunge qualcosa all’opera, che non è mai fissa ma continua a muoversi a oscillare e quindi a vivere. È così da sempre, pensa al giudizio negativo su Canova dato nel Romanticismo, poi rivisto e infine ribaltato a partire dagli anni Cinquanta. Ogni epoca legge la storia aggiungendo nuove sfumature, nuove angolature d’indagine».   
In Germania la figura del “Mentor” è un dato di fatto dal quale non si può prescindere per la propria carriera lavorativa, viene esplicitamente chiesto di citarlo nella compilazione dell’ application form o nel curriculum. Come funziona in Italia? Tu pensi di averne uno in particolare al quale devi l’indirizzo della tua carriera lavorativa o di ricerca?
«In Italia il Mentor è meno considerato come figura di riferimento ufficiale. Spesso del resto funziona come figura più defilata che spinge quello o quell’altro verso quella o quell’altra posizione. Ma forse tutto il mondo è paese. Le persone che io posso considerare come mentor sono senza dubbio Gino Di Maggio, una figura anch’essa borderline di impresario-organizzatore di eventi culturali, tra i primi in Italia ad interessarsi di happening e Fluxus, e Achille Bonito Oliva, “una spina nell’occhio dell’arte e della critica”, marxista (per via di Groucho e i suoi fratelli) e totoista (per rapporto edipico con il principe de Curtis)». 

Quali sono i tuoi progetti futuri e quale sarebbe la mostra personale o collettiva che sogni di realizzare?  E in quale spazio?
«Sto preparando “FututFluxus” un festival al Palais De Tokyo a Parigi che riconsidera il Futurismo come un precedente imprescindibile per Fluxus, cronologicamente anteriore al Dadaismo, che di solito viene citato come uno dei suoi padri spirituali, mentre nel 2013 partiranno una serie di mostre a Pechino che metteranno a confronto artisti italiani e cinesi. La mostra che vorrei fare? Quella meno aspettata nel luogo più improbabile».

1 commento

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui