21 febbraio 2014

L’intervista/Renato D’Agostin Il vulcano visto da New York

 
A tu per tu con un giovanissimo, e già navigato, fotografo italiano. Che, sbarcato a New York in cerca di qualcuno che guardasse le sue immagini, ha trovato l'America. Ma Renato D'Agostin, da sempre con l'obiettivo rivolto alle grandi metropoli, stavolta si è “tradito” con l'Italia e il suo paesaggio. Anzi, con un vulcano. Lo abbiamo incontrato in occasione della sua personale alla mc2 Gallery di Milano

di

Claudio Composti, a sinistra, e Renato D'Agostin

Dopo il progetto fotografico su Tokyo, nato dalla passione per la fotografia giapponese degli anni ’50, quando «il risultato della fotografia stava nel libro e non nella mostra», e quello su Venezia, uscito per «stravolgere l’idea del cliché veneziano», Renato D’Agostin, veneto, emigrato a 23 anni a New York, non in cerca di fortuna ma solo di qualcuno che avesse tempo per guardare i suoi lavori, torna da mc2gallery di Claudio Composti a presentare il suo primo lavoro sulla natura. 
Abbandonate per un attimo le tristi e malinconiche metropoli in cui sguazza che è un piacere, «dove ci sono tristezza e malinconia mi trovo totalmente a mio agio», dice, si è spinto in escursione sulle pendici dell’Etna da cui ha tirato fuori questo progetto che non riguarda solo la fotografia. Ecco qui la conversazione con il trentenne di San Donà di Piave (rigorosamente con un’ ombra di vino in mano).
Parliamo di Etna. Com’è nato questo progetto?
«Il progetto è nato veramente in modo naturale, un po’ per caso. Stavo andando in Sicilia per un lavoro che poi non è mai partito. Ero a Noto. Ero così vicino e l’idea del vulcano è così splendida che mi sono detto “Andiamo!”. Come ogni volta avevo la macchina fotografica con me e ho scattato senza il pensiero di poter farlo diventare un progetto. Ho scattato cinque pellicole in due ore e mezza circa. Poi sono tornato a New York e ho sviluppato il materiale insieme a tutti gli altri progetti a cui stavo lavorando. Ho stampato due o tre foto e mi sono piaciute. Ne ho stampate altre e mi sono piaciute ancora di più. Ho guardato altri progetti che stavo facendo, come quello sugli Acrobati di Shanghai e ho visto una connessione molto forte tra i due lavori. Sono ambedue fatti in un tempo estremamente limitato ed è il tempo che un turista passerebbe in quel luogo e in quella situazione. L’Etna, due ore e mezza di escursione; gli acrobati un’ora, in una pellicola. E quindi ho capito che volevo fare questa cosa. Il fulcro è sfruttare proprio il tempo che passerebbe un turista in una determinata situazione, e l’idea di Etna è proprio sull’escursione. Vai su e torni giù. Mi piaceva l’idea di fare una toccata e fuga. Con Etna sono diventato editore e ho creato una collana [Nomadic Editions n.d.r.]  
Etna, courtesy Renato D'Agostin e Mc2 Gallery, Milano

E poi, cos’altro è successo?
Più che altre cose, vorrei soffermarmi su una particolarità di questi progetti, nata anch’essa insieme alla collana. Ho pensato, infatti, che l’Etna avesse bisogno di un’altra parte oltre a quella della fotografia e che dovesse, come sempre nella storia, essere narrato e interpretato anche dal punto di vista poetico e letterario. Perciò ho mostrato le foto del vulcano a Luigi Cerantola, un poeta di Padova. Ci siamo intesi subito e abbiamo capito immediatamente dove volevamo arrivare entrambi. Dopo qualche giorno è arrivato un vortice di costruzioni poetiche. Abbiamo deciso di tradurlo anche in musica e abbiamo chiesto al compositore Claudio Sichel di scrivere un pezzo per il progetto. Ne è uscita una composizione elettronica, minimal, con dei suoni che ricordano molto il vulcano, un po’ astratti e abbiamo inciso un disco in vinile con musica e poesia eseguite dal coro MensanaX. Ci sono tre dimensioni che coesistono: la poetica con le parole recitate dal coro, la musica e la fotografia, da cui tutto è partito».
Cosi diventa quasi un’opera d’arte totale.
«Mi piace sempre la relazione tra le diverse forme d’arte. E la musica è quella che ascolto ogni volta che scatto. Nell’Etna in realtà non ho ascoltato niente mentre fotografavo, fatto che per me è stranissimo. Ma la musica di quella situazione era il silenzio assoluto,  interrotto solo dallo scricchiolio della lava solidificata. Che poi è vuota, c’è dell’aria dentro. Questo scricchiolio è diventato la colonna sonora del tutto».
Etna, courtesy Renato D'Agostin e Mc2 Gallery, Milano

L’Etna è il tuo primo progetto in cui indaghi la natura e il paesaggio?
«Sì, l’Etna è stato il mio primo approccio con la natura in assoluto. Ho sempre pensato, e continuo a pensare, che la natura sia un soggetto che non ha quelle dinamiche che mi interessano. Non ha quella compressione, quel soffocamento e quella malinconia che ci sono nella città e che non sento nella natura. Con la natura non mi sono mai confrontato perché l’ho sempre vista un po’ limitativa dal punto di vista fotografico. Puoi relazionarti ad essa in una linea che definirei troppo dritta per i miei canoni e per come mi relaziono con la città, dove posso interagire con gli elementi in modo diverso. 
Etna, courtesy Renato D'Agostin e Mc2 Gallery, Milano

Cosa ti ha convinto allora?
La cosa che mi ha fatto tirare fuori la macchina fotografica dalla borsa, durante l’escursione, è stata la luce. Essendo un suolo nero la luce viene riflessa in modo diverso. E quindi è tutto più ovattato, ed è quello mi ha dato quel senso della città che ogni tanto percepisco. La cosa più diversa in assoluto che ho sentito tra scattare in una metropoli e scattare sull’Etna è stato il rapporto tra compressione e dilatazione. In città cerco sempre di comprimere tutti i livelli della velocità, del tempo, in un unico solo. E questo lo faccio usando obbiettivi molto lunghi. Qui, invece, ho usato l’esatto opposto (che è un 35 mm) che, in termini fotografici, vuol dire che vedo tutto. Infatti qui c’è quella dilatazione che mi metteva la stessa ansia della compressione della città. In fondo sei in un deserto nero. Non sai cosa stai guardando. Quando scattavo a New York mi sentivo come quando scattavo in quella natura. Una sensazione decisamente stranissima».
E ora continui con le tue città?
«Sì, tra poco torno a Istanbul a finire un progetto che ho iniziato quest’estate. Poi Mosca, Città del Messico, Washington». 
Etna, courtesy Renato D'Agostin e Mc2 Gallery, Milano Etna, courtesy Renato D'Agostin e Mc2 Gallery, Milano

Com’è stato fotografare Istanbul?
«Con Istanbul ho avuto dei grossi problemi. È una delle mie città preferite in assoluto. È una Parigi bohémienne, una città che non è stata sporcata da tutte le dinamiche che hanno annullato le città dove vivo. Lì tutto è basato sulla vicinanza, mentre la mia fotografia tutta sulla distanza. Istanbul è sull’interazione, sullo scambio, su tutte queste caratteristiche che io evito nella mia fotografia. Mi sento più forte dove c’è un grande problema di relazione. Tokyo, per esempio. Adesso inizio Mosca e so già che mi troverò a mio agio. Dove ci sono tristezza e malinconia mi trovo totalmente a mio agio. Non penso riuscirei a fotografare Roma, per esempio. L’animo di Roma non ha nulla a che fare con quello che cerco di fotografare. Quella sarebbe una sfida e so già che la farò. Per il progetto su Los Angeles, invece, ero terrorizzato. Quando stavo parlando della commissione che mi hanno dato per L.A. con Ralph Gibson, di cui sono stato assistente a New York per qualche tempo, mi ha detto: “Se ci pensi non esiste un libro bello su Los Angeles. Nessuno la vuole fotografare. Prendila come sfida. Forse con il tuo occhio riesci”. E infatti non ne capivo le dinamiche, non capivo proprio che senso avesse. Non ha alcuna identità. Ogni giorno cercavo di focalizzarmi su gli aspetti diversi che esistevano insieme. È la dispersione. Mi sono concentrato sulla malinconia del sogno di Hollywood. Più che altro sul sogno mancato di Hollywood. Sulla pazzia totale delle relazioni tra le diverse parti delle città. Sul traffico, sulle strade, sul culturismo in spiaggia a Venice Beach, sul movie system, sull’alienazione che porta con sé una città del genere, anche se tutto quello che promuove è l’esatto opposto. Alla fine mi è piaciuta». 
E Gibson che cosa ti ha detto quando gli hai fatto vedere il progetto finito?
«Ha detto che è il mio progetto migliore». 
Ultima domanda: se non fossi emigrato a New York pensi faresti la stessa cosa che stai facendo adesso?
«Assolutamente no. Me ne rendo conto ogni volta che torno. Io amo l’Italia, ma so che non avrei fatto un centesimo di quello che, invece, ho realizzato là. Negli Stati Uniti sai che quando ti muovi da A a B, ha senso. E ti viene riconosciuto. A New York non c’è la fortuna. A New York c’è la strategia e il voler fare le cose». 

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