11 maggio 2007

SGARBIENNALE

 
Biennale come la Biennale di Venezia. Ormai diventata una piattaforma di amici e amici di amici che si scambiano favori in cambio di nulla. E Biennale come Babele, la Biennale di Milano che a Venezia può essere l’unica alternativa. E poi il lavoro di assessore, il rilancio del Pac di Milano e graffitisti e Testori. Si sgarbi chi può...

di

Passeggiare con Vittorio Sgarbi è divertente e istruttivo. Da un’automobile due ragazzi lo apostrofano “sei grande”. Un gruppetto di signore lo fermano. Lui le invita a visitare lo “scheletrone” di Gino De Domincis che ha voluto collocare all’ingresso di Palazzo Reale. Divertente per la leggerezza, la facilità di dialogo che intrattiene con la gente parlando d’arte: se pensiamo per contro alle nostre arcigne direttrici di museo, non resta che compiacersi della sua simpatia. Istruttivo senz’altro: oltre i riflettori, le tv, Sgarbi risponde con determinata pacatezza e responsabilità politica alle domande di Exibart sulla Biennale, sui primi mesi del suo assessorato a Milano, sul futuro …

È imminente l’apertura dell’ennesima edizione della Biennale di Venezia segnata dalla totale indifferenza per l’arte italiana. Penso all’ingenuità di molti colleghi, che dopo aver polemizzato con le “non scelte” delle due spagnole nel 2005, si sono mobilitati a raccogliere firme per il ripristino del Padiglione Italia. Spazio sì rinato ma affidato a Ida Gianelli, cosa che francamente sembra una presa per i fondelli, visto che la signora ci ha messo due anni a selezionare due soli artisti, Penone e Vezzoli, strafregandosene come sempre di chiunque lavori onestamente nel settore e vanificandone gli sforzi. Ora, alla Biennale di Berlino trovi i tedeschi, a Lione i francesi, a quella di Istanbul i turchi. Perché ciò non succede in Italia e perché la politica non interviene mai?
La persona più adatta a cui fare questa domanda sono io, ma è inutile sperare di ricavare qualcosa da una struttura malata e ormai defunta. Roma ha cominciato ad aggredirla per il cinema con una certa efficacia. Al momento non possiedo un’influenza di tipo politico morale, quando ne ho avuto la possibilità la mia idea è stata bruciata dal ministro Urbani, che ha preferito evitare un segnale forte, fortemente criticabile ma certamente discontinuo, nominando come gli avevo suggerito Robert Hughes invece di “accomodarsi” su Bonami. Avevo espresso il senso di una volontà politica che non è stata applicata non per posizione contraria, ma per totale indifferenza e stupidità.
Vittorio Sgarbi
Oggi Rutelli ha un’intelligenza superiore a quella di Urbani, ma non nutrendo particolari stimoli su tale argomento si limita ad applicare la norma per la quale visto che la Biennale è un ente autonomo non è compito della politica intervenire. L’unica possibilità è che un’altra città d’Italia, e non può essere che Milano, organizzi la vera biennale d’arte contemporanea, come quella a San Paolo del Brasile, con le dimensioni metropolitane che Milano consente. La risposta non è dire quali correzioni e quali tagli apportare: curatori come Jean Clair o Luigi Carluccio hanno in altri momenti consentito che la biennale avesse una maggiore varietà e presenza di artisti italiani. Quello che qui manca è talmente tanto, che è difficile dire cosa si può fare, un cancro che non puoi pensare di curare se non estirpandolo.

In altre nazioni vige la pluralità. In Germania, ad esempio, convivono il concettuale più duro e la pittura figurativa senza che alcuno le giudichi in contrasto. Il nuovo, addirittura, è contrassegnato da una vera e propria offensiva pittorica, proveniente da Lipsia e Dresda. E, a proposito di strategia, in Inghilterra nei primi anni ’90, dopo un decennio in cui non succedeva niente, il sistema ha imposto al mondo una nuova generazione di artisti britannici sostenendoli capillarmente e con grandi mezzi. Da noi vige lo scimmiottamento dell’international style. Perché questo massacro dell’arte italiana? Per me è autolesionismo puro…
Non c’è dubbio su questo. D’altra parte che il Padiglione Italia sia un padiglione nel quale noi abbiamo tutto meno che l’Italia ci spinge a pensare che vi sia una convinzione, sbagliata, per cui l’arte italiana oggi non esprima, dopo la Transvanguardia, nulla di universale. Un principio di volontà autolesionista ormai radicata, e sradicare una convinzione può avvenire soltanto attraverso diversi principi di curatela. Solo allora il Padiglione Italia potrebbe chiamarsi così e ospitare un buon numero di artisti italiani ogni due anni. La scelta, in un panorama ampio, sarebbe certamente opinabile, ma vitale. Invece la Gianelli e Storr sono convinti che gli italiani o non ci sono sulla nave internazionale o quelli che ci sono debbano essere i loro amici.
L
Ma forse neanche quello. Non mi sarei certo aspettato che considerassero i pittori che piacciono a me e che liquidano, sprezzano, come esponenti del mercato, ma tutti quei fenomeni del consenso, che espongono nelle gallerie fighette, si danno un gran da fare per mettersi in luce, e sono rimasti tutti a casa… Chissà che frustrazione… Il tragico è che c’è una specie di sipario sull’arte italiana. Trovo veramente scandaloso, e drammatico, che nessuno l’abbia scritto sui giornali, che un curatore di livello mondiale abbia fatto la lista della spesa con i nomi degli amici dei suoi amici, parenti, mariti…
Questa patologia vive non su un equivoco, ma sul fatto che la Biennale ha un brand molto forte nel marchio nella sua città, quindi rimane sempre la Biennale di Venezia anche se dà prove ogni volta discutibili. Ma poi si dice che una rappresentava il taglio di Szeeman, l’altra quello di Bonami, e il “taglio” diventa la giustificazione che tanto non si può essere universali, e se da un lato il marchio è forte, dall’altro l’offerta è casuale. La cosa irritante è la totale mancanza di metodo. Perfino Bonito Oliva nella Transavanguardia aveva puntato su un progetto. Non che rimpianga quell’esperienza, però di sicuro c’era una logica, mentre qui c’è solo casualità, e quindi il criterio dell’amico dell’amico è perfetto.

Non ti pare però che noi tutti abbiamo rinunciato troppo presto a manifestare il dissenso rispetto a un meccanismo perverso?
L’unica sarebbe imporre una pluralità di curatori, ognuno con la propria idea, stabilendo principi, non contenuti. Bisognerebbe dire che la varietà babelica delle biennali nasce dalla compresenza di dieci curatori ognuno con la propria visione, solo così avresti un campo piuttosto ampio. Pluralità dei curatori, pluralità dei linguaggi, peculiarità dell’Italia. Questi sono i principi da cui si potrebbe rifondare.

Veniamo a Milano. Tu sei stato promotore, tra le polemiche, della mostra sulla Street Art curata da Alessandro Riva, che ricalca molto Live Through This, ospitata da Jeffrey Deitch a New York nel 2005, come polso della situazione in tempo reale sulla vitalità dei giovani newyorkesi artisticamente nati dopo l’11 settembre e incensata dalla critica cool & trendy. La vostra mostra, invece, è stata criticata da taluni in maniera preventiva, forse perché l’ispiratore sei stato tu, amante della pittura classicheggiante e, soprattutto, non un amministratore di sinistra?
Per me è un fatto positivo. Infatti ho chiamato il mio testo, che è stato pubblicato senza titolo perché nella visione dell’editore l’assessore non deve mettere il titolo, “Finalmente prigionieri”, una miscela tra l’idea di destra che è preventivamente contro i graffitisti e che pure li accetta se vengono legittimati. Era troppo prevedibile che un’amministrazione di centrodestra non se ne occupasse, io l’ho fatto non per la destra o la sinistra ma perché sono assessore a Milano e tra le emergenze cittadine a un certo punto è venuto fuori il problema del Leoncavallo.
La Calamita Cosmica di Gino De Dominicis in Piazza Duomo a Milano
La questione l’ho affrontata non come centro sociale, competenza dell’assessorato ai giovani, ma dal punto di vista estetico di questi enormi murali che hanno un precedente soltanto in Rivera e Siqueiros a Città del Messico, con la differenza che quelli nascevano da un committente e questi no. In ogni caso possono qualificare uno spazio squalificato o inqualificato per le dimensioni, la spazialità. Ne ho preso atto e mi sono trovato a tentare di individuare un valore estetico. È un’operazione da storico dell’arte, né di destra né di sinistra. La destra forse non l’avrebbe fatta, la sinistra forse l’avrebbe ritenuta superflua. Io l’ho scelta non per ideologia, ma per la storia.

Non trovi sia un paradosso che la cultura di sinistra in Italia sia sempre più elitaria e snobistica, del tipo “meno siamo, meglio stiamo”, sorvolando sull’anima originariamente popolare. Qui c’è un riscontro di pubblico enorme, mentre di solito il Pac è vuoto…
Questo è un dato importante. Visitano la mostra in media 1.400 persone al giorno e a fine marzo siamo già a 30 mila, per questo ho prorogato la mostra. Ed è per lo stesso motivo che ho bloccato una rassegna di giovani artisti, non perché pensassi non ne valesse la pena, ma perché il Pac non deve essere uno spazio dove le cose avvengono per caso, ma un luogo che si tiene in piedi grazie alla partecipazione del pubblico, con Serrano, con i graffitisti, con cose che la gente vuole vedere. Il premio migliore rispetto alla critica è che il pubblico ci vada. Non sono interessato ad avere la benedizione di un’elite, ma alla signora quarantenne che mi scrive: “la ringrazio perché ero convinta del contrario, ma vedendo la mostra ho apprezzato la qualità di questi lavori”.
Sonda - La Saggezza, 2007 - Dittico, prima parte - acrilici su tela - 30 x 40 cm
E questo infatti è un ragionamento politico…
Non mi sono mai dedicato alla Graffiti Art come critico d’arte. Ciò prova che non avevo nessuna intenzione di provocare, ma di occuparmene in quanto emergenza della città. Lo scandalo non erano i graffiti al Leoncavallo, ma che non ci sia valore artistico senza l’illegalità. Come critico potevo anche non occuparmene ma come assessore ero allo stesso tavolo con i graffitisti e con chi voleva ripulire i muri. Non potevo rimanere indifferente, o polemico o partecipe, e ho scelto la seconda strada.

Dal punto di vista istituzionale, Milano tende a vendersi male. Le iniziative private fioriscono attraverso fondazioni, gallerie, ecc.. però sul versante pubblico non si è troppo sottolineata la vivacità della città. Da quando sei assessore, mi sembra che la situazione sia cambiata. Hai accentrato molto su te stesso, sul tuo personaggio, è vero, ma cerchi di offrire una pluralità di linguaggi e segni anche contrastanti e questa mi sembra la cosa più interessante.
È quella che chiamo la linea dell’et-et rispetto a quella del aut-aut. L’assessore è il mestiere migliore che si possa fare in politica, perché opera direttamente da protagonista. Penso a Renato Nicolini a Roma che lanciò l’effimero negli anni dell’emergenza, Balmas a Torino inventore di Settembre Musica e dei Punti Verdi. La politica dell’assessore alla cultura prevede un pensiero forte con delle scelte, mentre un assessore debole assume le posizioni degli altri e chiama Goldin.

Spesso citi Giovanni Testori come tuo riferimento nella cultura milanese, come intellettuale, meraviglioso scrittore ma anche come critico. Testori ha lasciato delle impronte “visive” su Milano. Cosa pensi degli artisti che oggi lavorano “testorianamente”?
Alcuni li ho adottati dopo la sua morte, da Crocicchi a Martinelli che non ebbe un testo critico di Testori ma un suo occhio critico che divenne un testo mio. È il tramando nel senso più arcangeliano del termine, tramando di metodo… Poi i pittori tedeschi, i nuovi selvaggi, Mehrkens, Fetting, Albert, li ho seguiti e in parte ereditati. Va detto che la forza di Testori era una specie di incremento del pasolinismo, nel senso che il luogo era il medesimo, la dissacrazione era la medesima, l’energia era la medesima, perché corrispondeva alla posizione di intellettuali totalmenteCano, Nato nell’acqua, 2007 - smalto su tela - 100 x 90 cm - Foto di Manuel Marano fuori dal sistema, forse più Testori che Pasolini. Quando Pasolini muore, infatti, la pagina culturale del Corriere della Sera viene affidata a Testori. L’articolo contro Gae Aulenti, quello sulla neve che blocca la città e la fa tornare a un tempo vero, sono testi quasi nietzschiani, nel senso di inattuali, segnali di una visione di Milano anche da critico d’arte cosa che in Pasolini mancava. La posizione ideologica e filosofica, nel teatro, nella scrittura e nella pittura si fondono in una visione plurale che, dopo di lui, ha trovato pochi altri esempi.

Quindi il tuo prossimo grande progetto sarà la Babele…
Babele sinonimo di visione acritica, aperta a tutto ma a tutto veramente, per evitare che ci sia il prevalere di un solo punto di vista, come accade invece alla Biennale. Babele è un metodo che sto lentamente iniettando e che intendo portare alle estreme conseguenze. Casualmente trova il suo logo in quel capolavoro di Kiefer, le Torri alla Bicocca, che a Milano rinascono come passaggio di testimone dopo il crollo di New York. Non ci sarà una visione orientata, ma una plurivisione. Anche il sintagma che ho inventato “Babele a Milano”, tre parole come “Biennale – di – Venezia”, è l’unica possibilità di fare una vera biennale non potendo immaginare di ricostituire quell’altra.

Nonostante tu sia molto popolare, seguito da un vasto pubblico, nell’arte non riesci a fare sistema fino in fondo. Perché?
Il lavoro è appena iniziato. Ci vuole un presidio istituzionale che lentamente si fortifichi. In effetti la mia forza è quella di non essere soltanto critico. Una visione può anche essere sbagliata, ma solo proponendola diventa vera. Ecco perché è importante che il ruolo politico della cultura sia attivo, non quello dell’intellettuale che contempla, ma dell’intellettuale che abbia la possibilità di agire. Sono ottimista di fronte a un gittata di cinque anni. Non dobbiamo rinunciare solo perché qualcuno insiste a prevedere sconfitte. Il vero deve avverarsi. A volte il potere serve anche più di una buona idea…

a cura di luca beatrice

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Robert Storr su Exibart.tv

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 39. Te l’eri perso? Abbonati!

[exibart]





11 Commenti

  1. una intervista omaggio alla vecchia scuola italiana dei pubblicisti genuflessi di fronte al potente o al divo. impagabile quell’immagine dei due ragazzi che lo acclamano (e non apostrofano), mentre Lui si adopera a distribuire perle di saggezza a cinguettanti sciùre innamorate che quello scheletrone sdraiato lì, davanti a Palazzo Reale, proprio non lo capiscono. E poi le domande: contenenti già la risposta, non lesinano le solite schifiltose considerazioni sulla cultura elitaria della sinistra…ma provati una volta a fare qualche domandina pungente all’interlocutore, invece di mendicare il suo consenso. Lo vedi: è più moderato lo Sgarbi (!) di chi lo intervista.

  2. fate tutti realmente schifo!
    validita’ alle manifestazioni alternative!
    neinte piu biennali ne spazi fisici ma la rete!

  3. sgarbi interessato alla street art!ah ah ah…questa è bella…la sua presenza è stata come partecipare al programma delle pupe e i secchioni…pubblicità!
    poveri street artisti che credono di aver trovato un padrino…

  4. non condivido una sola affermazione di questi due!
    ciò che mi consolo di notare è che sgarbi ha fatto un passo avanti rispetto a qualche anno fa: è passato dalle posizioni negazioniste da ‘ritorno all’ordine’ all’attuale ‘everything goes’ anni ’80!

    complimenti per il progresso del capo e del suo sodale.

  5. bugiardi!ladri!ignoranti! avete distrutto il sistema dell’arte italiano agli occhi del mondo.

    abbasso telemarket che sgarbi approva!

    dopo telemarket i graffitisti che alcuni, la maggior parte facevano ridere.

    fate prima un’indagine nazionale prima di eventi del genere. non esiste solo mica milano.

  6. dante e beatrice…. ma forse toto’ e peppino…
    intanto il grande lavoro di de dominicis grida vendetta e nessuno dei suoi mercanti e critici…muove un dito.

  7. mi viene da chiedermi quali sarebbero state le scelte di uno come Beatrice per la Biennale, chissà quali altri raccomandati avrebbe messo al posto di questi, lui che fa il moralista è una barzelletta ancora più divertente di Sgarbi che fà la Street Art

  8. Speriamo vivamente in questa “babele” di cui si parla nel testo. Il sistema dell’arte e’ cosi’ corrotto che fa ribrezzo…e tutto progettato senza nulla di autentico.
    ..io mi sono arresa..
    Sgarbi voleva venire a una mia mostra se non si fosse tenuta a treviso. sgarbi a jesolo e’.
    C’e’ un modo di farglielo sapere?? Annalisa Biscaro ..ho perso il suo numero per informarlo..ci siamo conosciuti da fior ad una premiazione nel 2003

  9. imbroglioni e ignoranti.
    ma chi ci fa piu’ affidamento alla biennale alle manifestazioni gestite da questo o quel curatore o critico,ai premi alle gallerie .

    e’ un sistema marcio.

    che apprezza e invidia telemarket

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