16 febbraio 2025

«Sono un artista che cerca di progettare l’impossibile»: intervista-fiume con Jan Fabre

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La vita, la morte, le ispirazioni della storia fiamminga. L’artista belga, in occasione della doppia personale a Roma, ci racconta temi e ossessioni della sua ricerca artistica

The man who measures his own planet, 2024. Marmo di carrara. Ph Pierluigi di Pietro

Dalla personalità eclettica, Jan Fabre è scultore, pittore, artista visivo e autore teatrale. Nato ad Anversa nel 1958, è riconosciuto come una delle figure più innovative del panorama artistico internazionale. Per la prima volta in Italia espone due serie legate alla produzione più recente che attraversano l’essenza del pensiero umano, dalla fragilità e dal dolore della vita alla giocosità dell’arte, in una dicotomia tra materia e spirito. Lo incontriamo nella Galleria Mucciaccia di Roma che lo ospita con una mostra su due livelli dai titoli Songs of the Canaries e Song of the Gypsies accanto alle sue sculture su grande scala, un viaggio tra simbolismo e innovazione, tra realtà e sogno.

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Jan Fabre alla Galleria Mucciaccia, ph.Valentina Sensi

La filosofia, la scienza e la spiritualità sono costanti nella sua arte. In che modo?

«Sono un artista della consilienza, credo nella convergenza dei saperi. Ho scoperto la più bella definizione di consilienza in The Unity of Knowledge (1998) dello scienziato statunitense Edward. O. Wilson: “un salto congiunto della conoscenza attraverso il collegamento di fatti e teorie basate sui fatti di differenti discipline, per creare una base comune di spiegazione e nuova interpretazione”. Da oltre trent’anni unisco arti visive, teatro e scrittura, creando uno spazio in cui filosofia, scienza e spiritualità interagiscono. Ogni linguaggio è il più giusto per esprimere una determinata idea, ogni disciplina nutre l’altra».

Ad esempio?

«La comprensione dell’entomologia, ad esempio, porta a nuove interpretazioni nelle arti visive, così come l’intelligenza cinetica degli scarabei ispira la mia esplorazione del movimento umano nella performance. Questa convergenza crea nuove immagini che si ritrovano sia nella mia arte visiva sia nel mio teatro».

È Nato ad Anversa, il mondo fiammingo è nel suo DNA, grazie anche a suo padre con cui condivideva la passione per l’arte. È corretto sostenere che la celebrazione della fragilità e l’allegoria nelle sue opere le ha attinte da grandi maestri come Van Eyck?

«Sono un nano nato nel paese dei giganti. Mio padre mi portava alla casa di Rubens per spiegarmi il suo lavoro, mi dava una sorta di disciplina nel copiare i disegni e i dipinti di Rubens, per esercitarsi e imparare le differenze nella resa anatomica del corpo nelle diverse epoche. Mi ha trasmesso la passione e l’amore per l’immagine e il corpo. Nella scuola fiamminga ci sono le mie radici, il genio di Rubens, i dipinti di Hieronymus Bosch, di van Eyck e van Dyck, hanno avuto un impatto enorme nel mio immaginario. Questi artisti sono brillanti, fantasiosi, audaci, più sovversivi di qualsiasi arte contemporanea di oggi. Quindi rubo ancora molto da questi maestri, dalla loro rappresentazione della vanitas, della metamorfosi del corpo come allegoria del ciclo vita-morte e rinascita. Credo che non ci possa essere avanguardia senza tradizione».

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Jan Fabre alla Galleria Mucciaccia, ph.Valentina Sensi

Ho letto che si definisce come la sua opera L’Uomo che misura le nuvole, ossia un infaticabile sperimentatore alla continua ricerca di oltrepassare i limiti. Cosa vuole ricercare e raggiungere?

«La prima mia scultura de L’Uomo che misura le nuvole risale agli anni Settanta, era in argilla dipinta e in scala ridotta. Era il primo omaggio al mio defunto fratello Emiel Fabre, ispirata anche al film The Birdman of Alcatraz con Burt Lancaster, che interpreta il famoso criminale-ornitologo Robert Stroud. Nel 1998 sono poi riuscito a realizzarla in bronzo lucido e in scala 1:1».

Come si compone?

«Il volto è quello di mio fratello morto ma il corpo è il mio, in piedi su una piccola scala da biblioteca, le braccia tese con righello tra le mani, come se stessi cercando di misurare l’impossibile. Per me questa scultura è un omaggio alla vita e alla morte, all’anelito umano di andare oltre, di non arrendersi e continuare a tentare. È anche una metafora dell’essere artista, che cerca di progettare l’impossibile, continuando a pensare opere utopiche. In questa mostra alla galleria Mucciaccia presento L’uomo che misura il proprio pianeta, una nuova versione basata su quello stesso soggetto, a cui però ho aperto il cranio, per rendere evidente quella terra incognita che è il nostro cervello. Quest’opera è ancora un ricordo della morte di mio fratello, rappresenta l’assenza di limiti dell’immaginazione e le distese universali del tempo e dello spazio. La ricerca è infinita come è infinita l’immaginazione».

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Jan Fabre alla Galleria Mucciaccia, ph.Valentina Sensi

Indaga sulla potenzialità del corpo umano e considerando che: «l’arte nasce dal corpo» non si fa remore ad utilizzare i suoi fluidi come sangue, sperma, saliva, lacrime. Il materiale cambia destinazione e funzione come le sue opere?

«In tutta la mia opera, interrogo il corpo dall’interno e dall’esterno. Il corpo non mente mai e fare ricerca su di esso significa attingere alle emozioni e ai pensieri più autentici. Gli aspetti materiali del corpo mi hanno incuriosito per molti anni: gli organi, lo scheletro e i fluidi corporei sono stati oggetto della mia arte visiva e del mio teatro. Per anni ho esplorato la nozione di corpo fluido, un corpo costituito esclusivamente da sangue. Ho pensato anche a cosa accadrebbe se il nostro scheletro interno venisse proiettato all’esterno e diventasse un esoscheletro, a difendere la nostra estrema vulnerabilità».

Questo a cosa l’ha portata?

«Nel mio lavoro c’è l’idea di un corpo che può trascendere sé stesso, pur rimanendo ossa, carne e sangue. Con la mia arte voglio esplorare e difendere la bellezza della fragilità, perché essere umano significa essere in bilico tra perfezione e fallimento, eternità e mortalità. La materia organica, nelle mie opere, può essere di volta in volta allegoria di questa divina bellezza del corpo».

Usa il corallo. Perché ne è affascinato? Per il suo colore sanguineo, per la sua preziosità in natura o per cosa?

«Il corallo è un materiale straordinario, per la sua natura e per il portato simbolico che ha fin da tempi antichissimi in tante culture da est a ovest del mondo. Quando sono stato invitato a realizzare una mostra personale al Museo di Capodimonte a Napoli, ho visto molti dipinti di artisti napoletani in cui il corallo era usato per rappresentare il sangue o l’eruzione del Vesuvio. Il mito vuole che nasca dal sangue di Medusa e il ramo naturale di corallo somiglia incredibilmente ai reticoli di vene. Richiama il rosso elisir vitale ma è l’esoscheletro di un animale marino. La natura dota gli animali più fragili di bellissime forme di difesa; con le opere in corallo celebro la bellezza della vulnerabilità in natura insieme all’idea di protezione e cura che è connessa al corallo nelle tradizioni umane».

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Jan Fabre alla Galleria Mucciaccia, ph.Valentina Sensi

Oltre ad essere scultore, pittore, è anche creatore teatrale, autore e attore. Ha un suo teatro. Ricerca la connessione con il pubblico stabilendo un contatto grazie alla performance e all’improvvisazione. Quello che ricerca è un pubblico che la applaude o un pubblico che diventa parte dello spettacolo?

«Per me il pubblico è sia spettatore che specchio. Il pubblico giudica il mio lavoro positivamente o negativamente, ma non lascio mai che questo abbia un impatto sulle mie future creazioni».

Perché?

«Non voglio in nessun modo influenzare le reazioni o i sentimenti del pubblico nei confronti del mio lavoro. Voglio che le mie opere rimangono sospese nell’aria, libere, vive e spontanee, svincolate da regole o aspettative. Il mio desiderio più sincero è quello di curare le ferite nella mente degli spettatori, di spostare il loro pensiero e portarli a pensare in un modo diverso. Tutto il mio lavoro è alimentato dalla curiosità e si tiene lontano dal cinismo, lontano dal politicamente corretto, da quello che ci si aspetta e si può prevedere. Spero che il pubblico abbia una reazione empatica di fronte alle mie opere, sia fisica che mentale. Non sono un attore anzi, sono un pessimo attore, ma attraverso i miei straordinari performer, i miei guerrieri della bellezza, cerco di liberare le energie anche del pubblico».

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Jan Fabre alla Galleria Mucciaccia, ph.Valentina Sensi

Alcuni critici sostengono che le sue performance abbiano uno stile violento ed eccentrico. Arte dissacratoria e spettacolare, come Il carnevale dei cani randagi morti o quando nel 2012 ad Anversa invitò in una sua performance a lanciare gatti per aria. La potenza del messaggio ne legittima la metodologia?

«Non creo mai pensando all’eccentricità o alla spettacolarità. Credo nella libertà dell’immaginazione, difendendo l’arte da qualsiasi forma di cinismo, spettacolarizzazione o strumentalizzazione. La mia arte tratta della vita e della morte, come forze appartenenti allo stesso campo energetico, i corpi di animali come i corpi umani sono rappresentazione del ciclo vitale, della metamorfosi, di fragilità ed eternità. Difendo la bellezza di tutto ciò che è vivo. É stata spiegata più volte la metodologia sicura e certificata con cui ho realizzato alcune mie opere o performance, dove non è stata attuata nessuna forma di violenza. Per esempio, nell’installazione The Carnival of the Dead Street Dogs (2009-2017) i cani sono stati trovati nei pressi di Anversa, perché molte persone comprano cani e poi li abbandonano per strada durante l’estate e così vengono uccisi. Questa installazione è essenzialmente una sorta di omaggio a questi animali. Credo che parli anche del potere, della forza e della vulnerabilità del genere umano e degli animali.

Quali sono i riferimenti?

Mio padre mi portava allo zoo, dove ho conosciuto le opere di Alfred Ost e Karel Verlat. Questi due artisti mi hanno portato a studiare l’intelligenza cinetica degli animali. Ho sempre avuto un forte fascino per gli animali, li ritengo i migliori medici e i migliori filosofi del mondo. Parlando del mondo animale, non dimentichiamoci che la crudeltà ne fa naturalmente parte. La natura non pensa al messaggio quando attua le sue metodologie di perpetuazione della vita, anche il nostro corpo risponde ad un istinto che, se ben direzionato, può liberare energie trasformative profonde. L’arte è uno strumento di liberazione di energie, mentali e fisiche, uno spazio sconfinato che, come l’amore, è anarchia, assenza di regole, rock’n roll. Solo in questo modo può portare le persone a pensare in modo diverso, generando consapevolezza e rispetto».

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Jan Fabre alla Galleria Mucciaccia, ph.Valentina Sensi

Nelle sue opere vi è la vita e la morte. Che importanza dà al tempo?

«Io vivo da sempre in uno stato di post-mortem, sono stato due volte in coma e il mio tempo è un tempo preso in prestito».

È stato il primo artista vivente invitato ad esporre al Louvre. come è stato il suo dialogo con i grandi maestri presenti nel museo?

«Ho aperto la mostra al Louvre con l’installazione scultorea I let myself drain (dwarf II) (2007): si vede la mia figura, ma in formato leggermente ridotto e come se fossi un artista anziano, che schiaccia il volto contro la riproduzione di un’opera di un maestro fiammingo fino a sanguinare. Ho sbattuto contro il muro della storia, ma non è una lotta, è un voto di rispetto verso i giganti del passato e la mia totale devozione all’arte. Dico sempre: “Senza tradizione, senza conoscenza dei propri antenati e delle proprie radici culturali, non c’è avanguardia”».

Ci racconti di più.

«Per sovvertire le regole bisogna svuotarsi, ma tenendo sempre conto di ciò da cui si viene. I miei incontri con gli artisti fiamminghi, lo studio profondo e l’esercizio nel copiarli, mi hanno fatto venire voglia di fare l’artista. Da lì ho iniziato il mio percorso artistico. Poi ci vuole una vita per diventare un giovane artista. Ho un’enorme ammirazione per i maestri fiamminghi, per la loro abbondante immaginazione e per la loro natura sovversiva. L’incontro con questi maestri, al Louvre come anche nella successiva mostra personale che ho avuto all’Hermitage, mi ha reso ancora più modesto come artista e continua ad ispirarmi, continuo a rubare da quella tradizione visiva».

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Measuring the neurons, 2024, Carrara marble Jan Fabre ph. Pierluigi Di Pietro

Song of Canaries e song of Gypsies il suo ultimo progetto. Può raccontarlo?

«Le due mostre che presento a Roma, nei due piani della Galleria Mucciaccia, sono state presentate in anteprima nella loro sede di Londra lo scorso autunno, a cura di Dimitri Ozerkov. Tutte le sculture sono scolpite in marmo di Carrara, un materiale molto sensuale ed erotico. Ho lavorato a questo gruppo di opere per quasi tre anni, con l’assistenza di artigiani carraresi. E presento anche due nuove serie di disegni».

E poi?

«La prima mostra, Songs of the Canaries (A tribute to Emiel Fabre and Robert Stroud), è un insieme di sette cervelli da cui escono canarini, che simboleggiano il pensiero e la ricerca dell’ornitologo-criminale Robert Stroud. Sono anche un omaggio a mio fratello minore Emiel Fabre, morto a causa della malattia che nelle Fiandre è chiamata “i canarini cantano troppo forte nelle orecchie”. Al centro dell’ultima sala c’è poi una grande scultura L’uomo che misura il suo pianeta. Quest’opera ha il volto del mio defunto fratello Emiel ma il corpo è il mio, e ha il cervello visibile. Dal cranio aperto si vede il “pianeta” dell’ornitologo Robert Stroud, la “terra incognita” che il cervello dello scienziato, dell’artista, dell’uomo».

E per quanto riguarda i disegni?

«Questa mostra vede anche una serie di disegni a matite colorate su Vantablack, dove ho voluto rappresentare la geometria delle vibrazioni, quelle che avvengono nel nostro cervello, degli atomi di cui siamo fatti, dell’energia del cosmo. Tutto è energia, che assume forme somiglianti tra loro.

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Measuring the neurons, 2024, Carrara marble Jan Fabre ph. Pierluigi Di Pietro

Sono presenti altri legami con la famiglia?

«La seconda mostra, Songs of the Gypsies (A tribute to Django Reinhardt and Django Gennaro Fabre), nasce dal profondo amore che nutro per mio figlio Django Gennaro Fabre e dall’ammirazione per il leggendario musicista Django Reinhardt. Ho chiamato mio figlio Django in omaggio al genio di Reinhardt, un belga che ha trasformato le avversità in un innovativo gypsy jazz. Ho conosciuto la musica di Reinhardt grazie alla passione per il jazz di mio padre Edmond Fabre e quelle cascate di note, libere e inspiratrici, risuonano anche nel rapporto tra me e mio figlio. Si vedono tre sculture in marmo di Django Gennaro quando aveva sei mesi, ma in scala a mia misura. Lo vedrete volare – The Freefaller (of Art) – seduto con il segno della pace – The Peacemaker (of Art) – e gattonare – The Partisan (of Art). Ogni posa è piena di energia infantile, risuona gioia e curiosità. La stessa esplosione di gioia che si ritrova nei disegni esposti in questa sezione della mostra, realizzati con l’aiuto del piccolo Django. Una sorta di jam session a quattro mani tra padre e figlio, proprio come nel jazz, dove l’improvvisazione si accompagna alla conoscenza. Istinto, intelligenza e consapevolezza».

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The Freefaller (of Art), 2024, Carrara marble Jan Fabre ph. Pierluigi Di Pietro

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