15 aprile 2013

Speciale Biennale/Parlano gli artisti del Padiglione Italia

 
L’appuntamento di Venezia rimane sullo sfondo, in questo incontro tra Ludovico Pratesi e Giulio Paolini. Il quale ragiona a suo modo sul tema che gli è stato proposto, "Arte come illusione"

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«Non è un’intervista, ma uno scambio di opinioni», dice Giulio Paolini mentre sorride, il volto illuminato dalla luce calda di un pomeriggio di marzo, che fa splendere le facciate dei palazzi, le strade e le piazze di Torino, città illuminista e rigorosa. Racconta del suo sopralluogo a Venezia per preparare la Biennale, dove ha constatato la natura dello spazio dell’Arsenale, compresa la sala che condivide con Marco Tirelli. Esprime un’ottima armonia con Bartolomeo Pietromarchi e la sua proposta curatoriale: il tema che unisce Paolini e Tirelli è l’”Arte come illusione”, un argomento che lo interessa molto.
Qual è il rapporto tra arte e illusione?
«Secondo me è l’unico argomento possibile a proposito dell’arte: che cosa c’è nell’arte oltre all’illusione? Nulla. Credo che l’arte sia la consapevole e determinata fuga dalla realtà operativa e quindi dalla quotidianità. Consapevole o inconsapevole? Non saprei dire se scelsi di fare l’artista per una ragione precisa, oppure se mi trovai semplicemente ad esserlo e soltanto più tardi cercai di trovare una giustificazione. Detto questo, credo sia inconfutabile affermare che se si è implicati nell’esercizio del linguaggio dell’arte, si ha a che fare esclusivamente con qualcosa che chiamiamo illusione. Non penso sia possibile mettere in testa o in bocca a un artista – per come ritengo debba essere considerato – l’ipotesi o l’ambizione di inerire a qualcosa che non sia assolutamente e soltanto illusorio».

Che rapporto c’è dunque tra illusione e visione?
«Ho appena detto che l’illusione è il territorio virtuale dove l’arte si aggira. Tra illusione e visione ci sono delle sabbie mobili, se intendiamo per visione qualcosa che attiene all’atto percettivo del vedere o qualcosa che può essere anche soltanto immaginario o presunto. Esiste il visionario e il vedutista».
Che differenza c’è?
«Un vedutista come Canaletto instaura un modo così rigoroso e così innovativo nel vedere la realtà che sembra quasi un visionario. Nel senso che, dando alla visione quel paradigma che riesce a dargli, in qualche modo la trascende. Ma il vedutista è anche, in quanto artista, un visionario, il quale, in termini più ovvi, è colui che falsa la visione che abbiamo davanti agli occhi e la trasforma, sublimandola».

Paolini è vedutista o visionario?
«Oso una diagnosi: non sono pienamente né un vedutista né un visionario! Sarei però propenso ad aderire a una direzione vedutistica, sempre che per vedutismo non ci si debba limitare forzosamente ad una regola invalicabile, che imprigionerebbe la stessa facoltà di vedere. Mi pare di essere più vocato a questo partito piuttosto che a quello dei visionari, che escludono a priori il vedutismo per proiettarsi – secondo loro a pieno titolo ma secondo me in pieno abuso – in un’assenza di regole alle quali non credo di poter rinunciare».

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