10 luglio 2008

STORICO CONTEMPORANEO

 
di lorenzo canova

Ritratto di un profeta della critica d’arte. Che ha “riscoperto” il Futurismo, visto nascere l’Arte Povera e, nelle due edizioni della Biennale da lui curate, ha voluto la videoarte. Proprio quando molti la davano per spacciata. Uno spaccato sulla vita professionale di Maurizio Calvesi...

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Maurizio Calvesi (Roma, 1927) è uno dei massimi storici dell’arte e critici d’arte italiani e internazionali, accademico dei Lincei, professore emerito di Storia dell’Arte Moderna all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha pubblicato studi fondamentali tradotti in molte lingue su Piero della Francesca, Beato Angelico, Botticelli, la Cappella Sistina, Dürer, Raffaello, Michelangelo, Caravaggio, i Carracci e Piranesi. È presidente della Fondazione Burri di Città di Castello e curatore della Collezione Farnesina del Ministero degli Esteri. Lo abbiamo incontrato però per parlare di alcuni aspetti delle sue ricerche dedicate all’arte moderna e contemporanea, al Futurismo, a de Chirico e alla Metafisica, a Duchamp, alle neoavanguardie italiane e internazionali, in una vastissima di attività critica ed espositiva, che comprende due edizioni della Biennale di Venezia curate nel 1984 e nel 1986.

Lei è stato tra i primi studiosi a occuparsi del Futurismo.
I miei rapporti col Futurismo risalgono al 1941: abitavo nello stesso palazzo di Balla e avevo conosciuto Marinetti. Purtroppo dovevo constatare che nel dopoguerra si era diffusa un’immagine falsa di Marinetti, considerato una sorta di mostro innominabile per i suoi legami con il fascismo, mentre in realtà lo avevo conosciuto come un uomo straordinario anche per bontà e gentilezza. Per contrastare questa idea sviante, mi misi a studiare il Futurismo e nel 1953, per conto di Argan, curai una grande mostra di Boccioni al Palazzo delle Esposizioni a Roma. Posso dire di essere stato il primo, con Crispolti, a rivalutare il Futurismo. L’ho fatto per la qualità delle opere dei suoi artisti e perché avevo capito che i manifesti di Marinetti avevano avuto un’importanza enorme per gli sviluppi delle avanguardie e delle neoavanguardie successive, fino alla Pop Art. Non a caso, in un’intervista di qualche anno fa, George Segal ricordava i suoi incontri con Kaprow per parlare di avanguardie storiche e in particolare del Futurismo e delle poesie radiofoniche di Marinetti, ricordando anche la loro importanza per Cage. Oggi quest’influenza è riconosciuta dalla critica internazionale. Certamente non ho mai pensato che tutto derivi esclusivamente dal Futurismo, ma è certo che questo movimento contenga molte matrici degli sviluppi successivi e che abbia meriti pari a quelli del Dadaismo o del Surrealismo.

Umberto Boccioni - Forme uniche della continuità nello spazio - 1913 - bronzo - cm 112x40x90 - Civiche Raccolte d'Arte, MilanoNei suoi studi ha messo in risalto le ricerche sui nuovi materiali che dal Futurismo arrivano fino agli anni ‘60.
È una delle linee forti di sviluppo dell’arte italiana. Negli anni ‘50, per Burri avevo ipotizzato un’influenza di Prampolini che lui stesso non voleva riconoscere, ma che c’è stata quando all’Art Club aveva incontrato proprio Prampolini, che nel suo libro sul polimaterismo parlava di materie umili inserite nel quadro. Naturalmente la statura di Burri è quella di un genio, ma Prampolini rappresenta un tramite fondamentale che unisce il Futurismo alle esperienze del secondo dopoguerra, per toccare l’Arte Povera attraverso la Scuola di Piazza del Popolo. L’utilizzo dei nuovi materiali è una delle intuizioni più importanti del Futurismo: Marinetti insisteva molto sulla psicologia della materia, e Boccioni ha approfondito queste ricerche a cui ha dato un contributo fondamentale, sviluppato da Prampolini (inventore del termine polimaterismo), proseguito da Burri e, sulla sua scia, da Colla, da Rotella e dalla Scuola di Piazza del Popolo. Si comprendono quindi meglio le ricerche di molti artisti attivi a Roma, come Ceroli, che ha usato il legno ma anche il ghiaccio e gli stracci, Fabio Mauri, Kounellis, le stoffe imbottite di Tacchi, ma anche i piombi e metacrilati di Marotta, le stoffe, gli scovoli e i materiali di recupero di Pascali. Non a caso, l’inizio dell’Arte Povera è da collocare, e questo è riconosciuto ormai anche a livello internazionale (come, ad esempio, ha fatto recentemente Robert Lumley), nella mostra Fuoco Immagine Acqua Terra che curai con Boatto all’Attico di Fabio Sargentini nella primavera del 1967, dove erano presenti l’acqua e la terra di Pascali, il fuoco di Kounellis, il legno di Ceroli, Schifano con i filmati sul Vietnam, e dove esponevano anche due protagonisti di quella che doveva diventare l’Arte Povera come Pistoletto e Gilardi. Non a caso, poche settimane dopo, nel catalogo della grande mostra di Foligno Lo spazio dell’immagine, per la prima volta tutta dedicata alle installazioni ambientali, mentre io insistevo sulle questioni della materia, Celant era ancora legato a una riflessione connessa solo all’occupazione dello spazio da parte di forme anche geometriche. Il suo grande merito è stato quello di sviluppare poi queste idee e di lanciarle anche con una visione manageriale a livello internazionale.

Albrecht Dürer - Melencholia I - 1514 - incisione al bulinoQuella mostra si collega a un altro caposaldo dei suoi studi, il libro Duchamp invisibile, dove veniva proposta un’interpretazione della sua opera in chiave alchemica…
Il titolo Fuoco, Immagine, Acqua, Terra oggi appare quasi scontato, ma per l’epoca era una novità e risente infatti dei miei interessi per l’alchimia, che mi hanno portato a pubblicare gli studi su Piranesi e Dürer. Questa attenzione è nata leggendo il celebre libro Psicologia e alchimia, nel quale Jung compara i sogni dei pazienti con le immagini dei trattati alchimistici. Mi sono accorto allora che l’alchimia era la chiave per comprendere la celebre incisione Melanconia I di Dürer. Il saggio è del 1969, ma già nel 1967 avevo pubblicato un’interpretazione di Piranesi in chiave alchemica. Va detto che anche Arturo Schwarz si era occupato di alchimia, per i rapporti che aveva avuto con la Francia, con Breton, ad esempio, che se n’era interessato e ne parlava esplicitamente. Schwarz aveva compreso i nessi tra l’opera di Duchamp e l’alchimia, ma li spiegava solo in chiave inconscia, come Jung faceva per i pazienti nei cui sogni appaiono le figure dell’alchimia. Io invece ho capito che i testi alchimistici erano conosciuti da Duchamp e dai surrealisti e nel mio Duchamp invisibile, del 1975, ho avanzato una lettura in questa chiave che oggi è generalmente accettata e ampiamente sviluppata. In effetti, quando gli è stato chiesto del suo rapporto con l’alchimia, Duchamp ha risposto: “Si je fais de l’alchimie, c’est sans le savoir”, ma il savoir, come sempre in Duchamp, può essere ambiguamente letto in modo doppio: può essere “senza saperlo”, ma anche “senza il sapere”, cioè senza la conoscenza necessaria, che è quella degli iniziati, successivamente l’artista ha chiaramente parlato di trasmutazione, un termine palesemente legato al linguaggio dell’alchimia.

La questione della materia e del suo superamento, centrale nell’idea di trasmutazione, si potrebbe intravedere nella dialettica tra materia e immaterialità dell’immagine elettronica contemporanea.
In un certo senso sì. Mi sono occupato spesso di arte elettronica e non a caso L’immagine immateriale era la sezione conclusiva di videoarte della mostra Novecento. Arte e storia in Italia che nel 2000 ho curato alle Scuderie del Quirinale e ai Mercati di Traiano e dove, parallelamente, avevo ideato una sezione dedicata alle poetiche della materia nell’arte italiana del XX secolo. L’interesse per l’arte elettronica si lega comunque al Futurismo e ai miei interessi critici sulle nuove forme espressive elaborate negli anni ‘60. Alla fine del decennio, nell’autunno del 1969, a Düsseldorf avevo infatti visitato una mostra di videoarte realizzata da Gerry Schum. Grazie alla forte impressione ricevuta da quella mostra proposi di basare sul video la mostra Gennaio ’70 al Museo Civico di Bologna, curata con Renato Barilli e Tommaso Trini: la prima mostra di videoarte in Italia e una delle prime grandi mostre a livello internazionale.

Alberto Burri - Nero Cretto - 1974 - Mart, RoveretoNelle Biennali di Venezia da lei curate, ha dato molto spazio alla videoarte e all’arte elettronica, anche in relazione alla pittura, anticipando una visione che segna il panorama attuale, ma che allora non era così scontata.

La videoarte ha avuto un ruolo importante nella Biennale che ho diretto nel 1984 e che comprendeva la sezione Arte allo specchio, un’ampia riflessione sul rapporto dell’arte contemporanea con l’arte del passato remoto o recente, e dove il gruppo dei pittori Anacronisti che sostenevo esponeva insieme ad altri protagonisti della nuova pittura italiana e internazionale e a maestri delle avanguardie storiche e delle neoavanguardie. Parallelamente era presente anche la sezione Arte, Ambiente, Scena, dov’erano esposti video di Gary Hill, Nam June Paik, Tony Oursler e Bill Viola e di molti altri importanti artisti. Va ricordato che, dopo il grande interesse degli anni ‘70, la videoarte in quel momento era in crisi di fronte al potente ritorno della pittura. Io ero invece interessato a riproporre il problema dell’immagine su due livelli complementari: quello “tradizionale” della pittura e quello più “avanguardistico” del video, per mostrare come queste due tecniche avessero pari dignità nel contesto contemporaneo. Nella Biennale del 1986, dedicata al rapporto tra arte e scienza, ho invece presentato una delle primissime selezioni di opere elettroniche trasmesse in una rete di interconnessione che non si chiamava ancora Internet, ma che stava per diventarlo. Così, forse il cerchio si è chiuso: non a caso era stato proprio Marinetti a teorizzare lo sconfinamento delle arti visive nel campo aperto delle comunicazioni di massa, della radio e della televisione, trasformate profeticamente da una visione che oggi definiremmo interattiva.

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a cura di lorenzo canova


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 50. Te l’eri perso? Abbonati!

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