15 luglio 2010

AMICI PERDUTI

 
di christian caliandro

Torna dopo qualche tempo, su “Exibart.onpaper”, il parallelo tra il mondo dell’arte e della produzione culturale con quello della tv e in particolare dei talent show. Dove il talento, presunto, può esprimersi solo e soltanto dopo aver chiesto il permesso per uscire fuori. Rigorosamente composto, diligente, pulito...

di

In Pulp Fiction (era il 1994), Quentin Tarantino è Jimmie, un marito seriamente
preoccupato dalla “situazione-Bonnie”, l’ipotetica reazione di sua moglie di
fronte al disastro in pieno svolgimento dentro casa sua. L’evoluzione intera e
recente di Amici di Maria De Filippi è altrettanto preoccupante, ma ci aiuta a cogliere molti
aspetti del quadro più generale. Se, infatti, fino a qualche edizione fa il
solo vincitore aveva qualche speranza di successo effettivo nel terreno della
“realtà”, adesso sono gli stessi produttori che si vanno a cercare, come acqua
alla fonte, i giovani talenti mentre ancora stanno a “scuola”. Uno ha vinto
addirittura Sanremo con la sua canzone (cantata da quello che aveva quasi vinto
Amici l’anno
scorso, che a sua volta ha fatto un duetto con quella che ha vinto Amici, dopo che, sempre l’anno scorso,
Sanremo l’aveva vinto quello che l’anno prima aveva vinto Amici… è tutto vero!).

Ciò che impressiona, effettivamente, è la potenza di fuoco
messa in campo da un programma che catalizza tutti i componenti dell’industria
cultural-musicale: giornalisti, critici, maestri, produttori… Non è che
semplicemente li invita, li convoca. Tutti gli elementi concorrono a costruire l’intera – o
quantomeno la stragrande maggioranza della – ex-morente industria musicale
italiana; certo, l’underground (r)esiste anche se langue un pochino, ma non è affatto
visibile, neanche di striscio.


Mentre scriviamo, ascoltiamo questa frase: “Pierdavide,
qualcuno ti ha paragonato a Rino Gaetano. Non so se farai la stessa carriera,
ma sicuramente ti stai avviando su questa strada
”. Ma il punto è proprio questo.
Sin dall’inizio dei talent show, e molto più negli ultimi tempi, si propone
un’idea dello spettacolo e della creatività assolutamente passiva. Questi
interpreti/imitatori chiedono il permesso e gli operatori del settore graziosamente glielo
accordano, oppure altrettanto graziosamente glielo negano. Oltre la
legittimazione e la certificazione da parte dei gatekeeper (tipica peraltro di tutte le
industrie culturali, dal cinema alla moda, dalla letteratura al teatro, dal
design all’arte), qui assistiamo all’autorizzazione. Il tutto all’interno di una
cornice fatta di umiliazioni continue e sovraesposizioni cattive, che poi è
l’ormai stantio format del reality.

Dice, “ma questa è la televisione, la vita vera è un’altra
cosa
”. Sbagliato.
Perché quello che viene ormai non più solo proposto, ma replicato
ossessivamente e magnificato, è un modello culturale ed esistenziale. Ogni
espressione simil-culturale passa attraverso la certificazione da parte delle
generazioni più anziane; ovviamente quelle detentrici del potere, decisionale
ed economico. Il prezzo è l’inerzia autoindotta. L’addomesticamento senza mai
essere stati selvaggi. La rinuncia in partenza.


Ipotizzo un cantante da esportazione”, è l’ultimo commento illuminante
appena orecchiato in tv. Gesù, esportazione de che? Ma gli altri paesi ne hanno a
iosa di “talenti” preconfezionati, interpreti diligenti e pulitini di un
passato che era noioso pure quando era attuale! Ammesso che, poi, li desiderino
davvero così tanto, e non si rivolgano invece ad altro. D’altra parte, questo
sistema all’interno dei confini nazionali tiene, e tiene bene. Qualche tempo fa
avevamo affrontato l’analogia tra la figura del tronista e quella dell’artista
contemporaneo italiano [L’artista-tronista, in Exibart.onpaper, n. 38, marzo-aprile 2007]. Il problema
non è neanche più l’infinita replicazione (già assodata), ma è l’attitudine,
quella sì facilmente esportabile ed esportata: se vuoi ottenere quello che
desideri (il contratto con la Sony, andare sull’Isola, essere candidato, la
personale nella galleria gggiusta), devi conformarti.

Conformarti non solo nei gusti, in pensieri parole opere e
omissioni, ma proprio conformarti nel vuoto, nel non-esistere. Anzi, nel non-esserci. È una questione che attiene,
come dicevamo, al quadro generale. Perché in questo paese siamo ormai ben oltre
il familismo amorale di cui parlava Edward Banfield ormai cinquant’anni fa in Le basi
morali di una società arretrata
. E tutti oggi citano la definizione, senza considerare
che ci è voluto un sociologo americano stabilitosi in Basilicata con moglie al
seguito per spiegarci come siamo fatti, praticamente da sempre. Il familismo
presuppone infatti almeno l’esistenza di legami basilari, molto stretti. Anche,
e soprattutto, arcaici.

Qui invece abbiamo una produzione culturale che, per
affermarsi, deve abdicare a tutto ciò che la caratterizza appunto come
“produzione”: innovazione, creatività, originalità, attivazione dei contenuti e
dei saperi, pensiero divergente. Una presenza che può manifestarsi solo,
continuamente, come assenza. E persone che devono e vogliono trasformarsi in
apparizioni, pur di avere un’apparenza di realtà. Sempre chiedendo il permesso,
per carità.

articoli correlati

L’artista-tronista

Tarantino
e i Bastardi senza gloria

Socialità
dell’evo nuovo

christian caliandro


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper
n. 66. Te l’eri perso?
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[exibart]

3 Commenti

  1. articolo non privo di spunti interessanti…però tutta questa sociologia della spazzatura ci è un pò venuta a noia…naturale che l’underground è mille volte più interessante ma, per gli addetti ai lavori, è più faticoso individuarlo e soprattutto analizzarlo con le categorie dell’ignoto….dove sta il problema? nella categoria degli esperti…. del ping pong…la varietà culturale ridotta a partitella…..

  2. mi trovi d’accordo.da tempo sostengo che il sistema dell’arte è del tutto simile allo showbiz,soprattutto televisivo.strutturato in modo tale che decidono poche gallerie quali saranno gli artisti e i gusti per i prossimi mesi,impongono nomi indipendentemente dal talento,ormai quello conta veramente poco ,sufficiente l’appoggio di certe gallerie per far decollare lo status dell’artista di turno,se anche la galleria è completamente vuota un certo pubblico ben indottrinato abbocca lo stesso…poi promuovere su riviste specializzate e spazi pubblicitari il tal artista per 100.1000 volte…è la stessa operazione che accade nel sistema televisivo che ti impone certi personaggi indipendentemente dalla tua capacità di selezionare,consapevoli del fatto che alla lunga saranno funzional e assorbiti anche questi dal sistema

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