16 febbraio 2011

AUTOREFERENZIALITÀ, PRODOTTO STORICO DELLA NOIA

 
di christian caliandro

Perché il mondo (e il sistema) dell’arte ci risulta così spesso ripiegato su se stesso, intento nel complicatissimo incarico di guardarsi l’ombelico? Una spiegazione può provenirci da una disamina storica. Quasi matematica nel suo confrontare avanguardie e post-avanguardie...

di

“Ha visto scene di violenza?”

“Solo nei film europei.”

David
Summer-Dustin Hoffman in

Cane di paglia (Sam Peckinpah, 1971)

Se ci guardiamo un pochino attorno, alcuni elementi-chiave
della produzione culturale tipica del XXI secolo appaiono ormai abbastanza
chiari e definiti. Il cinema, pur con tutti i distinguo, si è ormai stabilmente
affermato come dispositivo creativo prototipico del nostro tempo: un modello
collettivo, in cui la figura del regista passa ancora per Autore [1], ma di
fatto l’oggetto è il risultato dell’opera e delle specializzazioni di varie
figure equivalenti. Un modello al tempo stesso particolarmente consono e
coerente con l’epoca post-industriale e con la progressiva specializzazione
richiesta e imposta dalla postmodernità inoltrata. L’industria culturale è
ormai tale non perché, secondo l’antico dettato della Scuola di Francoforte [2],
si distingua in questo modo dalla cultura tout
court
(l’”Opera d’Arte”), ma perché ha definitivamente esteso il proprio
dominio semantico e simbolico anche su quei territori che una volta le si opponevano.
Anche evitando accuratamente il lemma stesso di “produzione culturale”, non si
può esorcizzare in alcun modo la contaminazione della merce, della serialità,
dell’immaginario standardizzato.
E invece, vediamo un po’ come sta il mondo dell’arte o –
come amabilmente viene definito – il sistema
dell’arte. La caratteristica che appare in maniera più evidente è una certa
spiccata tendenza all’imitazione di quel modello collettivo proprio, per
esempio, del cinema (ma anche, se è per questo, della musica pop, delle serie
tv, dei video musicali [3] o degli
stessi videogiochi…; per non parlare, ma qui il discorso si farebbe in teoria
più complicato, della letteratura). Da circa cinquant’anni a questa parte – un
arco storico, come si vede, già piuttosto consistente – assistiamo a pittori
che sfornano quadri in serie, scultori che affidano la realizzazione delle loro
opere a team sempre più corposi e qualificati di tecnici e artigiani, critici e
curatori che assumono su di sé il ruolo di registi/direttori d’orchestra, e
così via. Fin qui, si dirà, nulla di nuovo sotto il sole. Non è altro,
dopotutto, che il naturale sviluppo del processo inaugurato dalle avanguardie
storiche e dal modernismo, aggiornato dalle neoavanguardie all’insegna della
morte dell’autore e dell’opera aperta.
Somewhere - Sofia Coppola durante le riprese
A questo punto, però, all’altezza cioè dei “memorabili”
anni ‘60, si innesta una prima stranezza storiografica. Come ha dimostrato
Peter Bürger nell’insuperato Teoria
dell’avanguardia
(1974) [4], la neoavanguardia è interpretabile come
riproposizione in termini di farsa – sulla scorta del XVIII Brumaio di Luigi Bonaparte (1852) di Karl Marx [5] – della
spinta rivoluzionaria alla base del suo modello primonovecentesco, e come tale
è destinata al fallimento. Il cortocircuito fra arte e vita, come del resto
ogni cortocircuito che si rispetti, non fa funzionare proprio un bel niente:
destabilizza piuttosto ogni processo e percorso. L’aspirazione al cambiamento
che dalla realtà sembra trasmettersi all’arte e viceversa lungo tutti gli anni
‘60 e ‘70, attraversando movimenti come il Minimal, il Concettualismo, l’Arte
Povera, presenta sin dall’inizio dunque elementi notevoli di criticità.
La questione si complica se allarghiamo lo sguardo a volo
d’uccello, sino a comprendere i decenni successivi fino ad oggi. Ci accorgiamo
infatti abbastanza facilmente, anche a una prima rudimentale analisi, di come
proprio le operazioni artistiche che avevano preso a modello avanguardie
rivoluzionarie di cinquant’anni prima, siano divenute a loro volta modelli per
la costruzione di un intero sistema economico, culturale, istituzionale e
sociale che di anarchico conserva ben poco. E ciò non si limita semplicemente a
soluzioni linguistiche o stilistiche: vale a dire, non è solo il
post-concettualismo a essere diventato il linguaggio internazionale di
riferimento – un codice artistico di importanza pari forse solo alla Maniera
nell’Europa del Cinquecento. Non è un caso infatti che tutti i fattori chiave
alla base del mondo dell’arte così come lo conosciamo (tanto per fare due esempi:
il curatore-star e la fiera come
evento espositivo alternativo alla grande mostra biennale) siano nati
ufficialmente proprio nei tardi anni ‘60.
Godard sul set
È chiaro, dunque, che un sistema così concepito e
sviluppato sia, in fondo, inevitabilmente conservatore, aggrappato a valori
trapassati. D’altra parte, se ci pensate bene, è come se l’intera
cinematografia hollywoodiana e occidentale dell’ultimo mezzo secolo fosse
rimasta bloccata agli schemi e agli stilemi della nouvelle vague e della New Hollywood, condannata a ripetere con
minimi scarti e variazioni Godard, Cassavetes e Bob Rafelson, senza
proseguire
in alcun modo quella sperimentazione narrativa. Sebbene questo
sicuramente per alcuni possa costituire un quadro altamente desiderabile (è
dimostrato peraltro in modo lampante da un film come Somewhere), nondimeno si presenta all’universo mondo come di una
noia mortale. Con tutti i difetti, le regressioni e le banalizzazioni, la
storia del cinema negli ultimi decenni presenta comunque una qualità
invidiabile: la storia, appunto,
intesa come evoluzione (o involuzione, che dir si voglia), in ogni caso come movimento. Esattamente la qualità che
sembra difettare al mondo dell’arte contemporanea, ineffabilmente congelato in
un sogno stantio, allegramente sganciato dalla realtà e dalle sue
trasformazioni. Per di più, felicissimo e appagatissimo di questo isolamento.
[1] Cfr.
in proposito AA. VV., Les Cahiers du cinéma.
La politica degli autori. Vol. 1:
le interviste
, minimum fax, Roma 2006.
[2] Cfr. E. Donaggio (a cura
di), La Scuola di Francoforte. La storia
e i testi
, Einaudi, Torino 2005, e T. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 2009.
[3] Cfr. L. Berton, Videoclip. Storia del video musicale dal
primo film sonoro all’era di YouTube
, Mondadori, Milano 2007.
[4] P. Bürger, Teoria dell’avanguardia, Bollati
Boringhieri, Torino 1990.
[5] K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte,
Editori Riuniti, Roma 1997.

christian caliandro


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper
n. 71. Te l’eri perso? Abbonati!

[exibart]

1 commento

  1. L’idea che il sistema dell’arte predominante, sia autoreferenziale (alienato), che esso impone alla vita umana forme e linguaggi comunicativi individuali o collettivi – calati dall’alto dall’industria dell’arte e la cultura, come vettori portanti della trasmissione di sapere; è una prassi obbligata e consolidata dell’attuale struttura economica finanziaria globalizzata, di cui i capisaldi del pensiero liberal post-capitalistico ne è la sovra-struttura critica portante. L’ttuale disumanizzazione/alienazione dell’arte e in generale la mala radice di infelicità diffusa, in tutte le forme espressive della cultura contemporanea, è da ricercare proprio in questo modello perverso di sviluppo economico e culturale dominante, basato sul profitto e la divisione del lavoro. L’articolo riportato da Christian Caliandro, se pur lucido e interessante nell’ analisi storica, riflette per tanti aspetti, un pensiero critico già noto e affrontato ampiamente, nell’ambito delle avanguardie storiche, ma soprattutto nella dialettica -critica di radice(marxista)- peraltro, non senza qualche buon motivo. Credo, che sia superfluo ricordare quanto il “mostro” di questa alienzione e disumanizzazione abbia turbato i sogni di molti artisti e di tutta la cultura della prima metà del novecento. Un modello di pensiero che ha già attraversato circa un secolo di storia e che rischia di tradursi in un gergo vacuo e farraginoso, proprio, sotto la spinta incessante del profitto che produce fenomeni culturali, (mode) apparententemente nuovi nel segno e nel linguaggio, ma che poi, per complesse ragioni sociali e culturali, si rimodellano, inevitabilmente, al conformismo dilagante di luoghi comuni. In altre parole, nascono nuovi sul piano del linguaggio/ forma/significato, ma già morti e lontani dall’ interpretazione reale, minuziosa e scientifica della realtà. Senza mai mettere, veramente in crisi la stessa struttura economica/finanziaria, che li produce e li diffonde su scala mondiale(l’asse mediatico- industriale di produzione, diffusione di arte e cultura). Anche l’attuale critica d’arte non sfugge a questa regola e i suoi concetti tendono a trasformarsi sempre e comunque, in veri e propri disamine critiche post-manieriste, in cui una certa retorica, diventa ripetitiva e noiosa. Un crocevia di parole inutili, di memorie, di linguaggi artistici assuefatti; promisqui di istanze culturali confuse; conditi di consuete categorie del liberalismo post-capitalistico, sia pure riveduto e corretto nella prassi critica. Ovviamente, ad un simile stato attuale di crisi si può reagire in modo semplice ed efficace: cancellando con un colpo secco di spugna tutti i linguaggi dell’arte, per rianalizzare alla radice i meccanismi dell’alienazione, dell’autoreferzialità e del profitto; col fine di dipanare una ad una le immagini del cinema, della televisione dei media, dei progetti dell’arte o anche le false aspettative che si sono sedimentate nel nostro linguaggio e modo di intendere e percepire la cultura contemporanea. Una produzione industriale di cultura che ha assunto un ruolo dominante in molti ambiti specifici- come il cinema la televisione, le arti visive, la ricerca scientifica o l’informazione- ma anche la libera creatività personale. Allo stato attuale non ci sono le condizioni storiche per un risveglio della coscienza collettiva: una coscienza critica motivata, tale da ribaltare o scardinare alla radice questo sistema dell’arte e della cultura, che si presenta autoatrofizzato e autoreferenziale e distante dalla realtà.

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