04 marzo 2004

Berlino deja vu?

 
di helga marsala

Berlino mette in scena sé stessa. La terza edizione della Berlin Biennale fa il punto di una condizione storica e sociale precisa. La città 15 anni dopo il collasso del muro. Una mostra in bilico tra memorie e attualità, orchestrata dalla curatrice Ute Meta Bauer. Vera star e protagonista. Le opere e gli artisti restano un po’ dietro le quinte. Mentre languono le finanze. E le emozioni. Potrebbe essere questo l’ultimo capitolo –finalmente!- di una tendenza curatoriale che guarda troppo all’universo del sociale?

di

Berlino, nodo di energie controverse. Spazi larghi e vuoti disegnati da contraddizioni. E strati di memoria a coprire un paesaggio freddissimo-grigio-vibratile. Berlino high-tech, Berlino rigorosa e povera, economie che vacillano, exploit di contemporaneità avvincente e talvolta provinciale, come una città che rimane straniata dentro sé stessa. Proiettata in avanti, attaccata a ieri.
Durante questo mese si sono succeduti eventi dal respiro internazionale, che hanno pervaso la città di vigore: dopo Transmediale e il 54° Berlinale, si è aperta la terza Biennale di Berlino, diretta da Ute Meta Bauer (già co-curatrice per l’ultima Documenta), divisa tra le sedi del Martin Gropius Bau, del KW Institute e del Kinobert neumann Arsenal. Una triennale di fatto, a dispetto del nome: la prima nel 1998, poi nel 2001, e ora quest’ultima edizione. Vero filo conduttore, nell’arco di questi pochi anni di vita? L’assenza di fondi adeguati, la precarietà economica. Anche stavolta la scommessa stava tutta nel rapporto qualità/investimenti. Budget 2004: 1,5 milioni, euro più euro meno. Poco per un evento di questo tipo.
Il risultato è stato non troppo esaltante. Una mostra dignitosa, ben costruita, mai troppo sotto tono, coerente nell’insieme. Ma senza picchi, senza emozioni, niente scivoloni eclatanti, ma neppure passaggi indimenticabili. Una mostra un poco triste. Triste perché fiacca e vecchia. Nessun orizzonte insolito prefigurarsi, assenza di qualunque slancio. Tutto già detto e visto. Lo stesso filone cavalcato ormai da anni, che il suo vertice ha avuto in Documenta 11. Tematiche forti, ma nessuna intuizione originale: città, paesaggi, etnie, architettura, geopolitica, urbanistica, dinamiche sociali… Differenza fondamentale: Documenta decisamente global, apiotr nathan tracciare mappature di un mondo in via di riassetto e ridefinizione, e questa piccola biennale molto local, a fare il punto di una situazione storica e sociale precisa: Berlino quindici anni dopo la caduta del muro. Un evento costruito intorno a una città, alla sua storia, al suo presente complesso, definito dai molti nodi non risolti. Una riflessione, un bilancio che non vuole essere esaustivo né obiettivo. Qui la direttrice è stata chiara: una visione personale, il suo sguardo proiettato su un luogo dalla cui identità non è possibile prescindere. E se cinquanta sono gli artisti invitati, rimane la sensazione che l’unica protagonista sia proprio lei, Ute Meta Bauer, con quel suo sguardo indagatore, intelligente, acuto.
La Bauer è uno di quei curatori che scelgono di dare a una mostra un segno marcato, netto; è una che concepisce la realizzazione di un evento come un’azione fortemente creativa, a volte a discapito delle opere stesse, che diventano uno strumento qualunque per raccontare e sostenere un’idea precisa. vangelis vlahos
Ute e il suo immaginario femminista, politicizzato, imbevuto di letture sociali dal gusto oramai retro’. Ha scelto di organizzare la rassegna intorno a cinque hub, specie di nodi tematici intorno a cui si articolano le opere e le riflessioni degli artisti.
Il termine hub è mutuato dalla terminologia informatica, e indica un distributore di dati all’interno di un network (periferica di snodo); viene inoltre usato per definire i centri di traffico aereo. Gli hub consentono al pubblico di mettere in relazione i lavori selezionati, di creare proprie connessioni tra i contenuti. Centri di snodo appunto, da cui far partire personali elaborazioni concettuali e connessioni percettive.
Questi i cinque5 fulcri, affidati a dei co-curatori invitati a sviluppare le tematiche scelte dalla Bauer: Migrations, Urban Conditions, Fashions and Scenes, Sonic Scapes, Other Cinemas.
Martin Gropius BauGli artisti? Tutti abbastanza consolidati, alcuni sconosciuti, qualche star, generazioni e nazionalità varie, tutti legati in un certo modo a Berlino. Ma dalle opere –per la maggior parte installazioni, video e fotografie- si entra e si esce con una certa leggerezza, attorno a questi nodi che danno un sapore preciso a tutta la mostra, e che pure non creano segmenti chiari, definiti. Uno slalom di contaminazioni e un libero gioco di link. Resta qualche immagine pulita e netta. Bella a tratti. Ma sempre fuggevole… frammenti sottovoce, visioni in superficie. E il gusto dolceamaro di inspiegabili déjà-vu…

helga marsala


www.berlinbiennale.de
fino al 18 aprile 2004


[exibart]

4 Commenti

  1. La qualità di queste grandi mostre è sempre più scadente e una delle ragioni é che gli artisti rispetto a questi “curatori” sono perfettamente intercambiabili , quindi ogni operare complesso che non sia schematico o teoricamente strumentalizzabile è rifiutato . E’ praticamente impossibile che possano emergere lavori realmente indipendenti e originali in una situazione simile, dove tutto và semplificato secondo un
    trito lessico internazionalista da agenzie di viaggio o peggio da azienda di promozione turistica comunale come in questo caso.
    La banalità deLLe tematiche scelte
    (Migrations, Urban Conditions, Fashions and Scenes, Sonic Scapes, Other Cinemas. )
    richiama fin troppe mostre più o meno recenti
    e fin troppo viste.
    Si può benissimo ipotizzare che un artista che per sua sventura si occupasse di tutte queste tematiche in un unica opera non potrebbe partecipare alla mostra dovendo concentrarsi su un unico problema alla volta per poter accedere ad una delle sezioni di questa misera architettura concettuale. Un curatore progetta in queto modo: qui ci metto una tensione razziale, qua va bene un riferimento all’economia dei paesi emergenti del sud est asiatico per sfociare nella stanza delle migrazioni (Chissà se è ancora reperibile l’olandese volante, basterebbe coonvincerlo che anche lui é un artista, tanto oggo dicono di esserlo tutti), inoltre qua ci metto un africano così conoscerò qualcuno che mi può aiutare ad entrare nella direzione della
    prossima biennale dello zaire….
    Nel passato dell’arte spesso artisti analfabeti realizzavano opere di grande complessità , racchiudendo nella stessa opera riferimenti che andavano dalla religione al potere politico all’indagine psicologica
    fino all”abbigliamento, realizzando opere ben più rappresentative del proprio tempo rispetto a questi artisti molto informati ma pure loro analfabeti, ma di ritorno. Inoltre sapevano realizzare con le proprie mani e dopo impegnativi e selettivi addestramenti delle bellissime cose da vedere e non necessariamente sempre indorando la pillola, mentre questa massa di
    artistoidi inglobati in questi pacchetti pretenziosi non sanno che realizzare cose inguardabili, dei filmetti casalinghi senza capo nè coda che disgusterebbero uno sperimentalista come Adorno (che avendo ben altrocervello oggisicuramente si rivolta nella tomba) e qualunque documentarista.
    Naturalmente la disoccupazione intelettuale è un problema e quindi le nostre società devono occupare in qualche modo tutta questa gente, da qui tutti questi mega spazi e tutti questi curatori a curarli.
    Ma preferirei più artisti bravi ed inimitabili piuttosto che questo sovrabbondante apparato burocratico, e poi, come diceva De Dominicis , i curatori, se hanno qualcosa da dire di valido
    che si trovino un editore che gli pubblichi un libro e provino a vivere di quello.

  2. Mi trovo a leggere sempre le stesse cose. Polemiche insulse e sintomo di profonde frustrazioni (mi vien da dire marco se la biennale l’hai vista)o se sei un artista non risolto.
    In altri casi, come la recensione della Marsala un pezzo scritto bene, gradevole puntuale sulle cose più superficiali, e completamente fuorviante e “allineato” nelle critiche negative mosse nei confronti di una realtà, certamente anni luce distante dall’italia, ma che almeno ha il pregio di avvalersi di persone preparate e dotate di certa onestà intellettuale.
    Quello che leggo nell’articolo rappresenta da un lato la latitanza intellettuale (e qui concordo con marco)e mi scocerta come si parla della fine di una linea curatoriale: ma ben vengano altri curatori che si assumono le proprie responsabilità. Si parla ancora di emozioni e chiari di luna…ma per favore non stiamo qui a trastullarci con le impressioni effimere e che magari nn hanno avuto il tempo di trasformarsi in riflessioni dopo aver visto realmente una BIENNALE.

  3. Conosco bene Berlino e la sua scena artistica (vado a prendere ossigeno in Germania e a Berlino almeno due volte l’anno), e, non volendo contraddire Helga Marsala e il suo articolo ben scritto e ponderato, ci tengo a specificare che il commento dell’autrice è sicuramente da collocare nei parametri di un dibattito artistico e di una qualità della vita culturale che non ha nulla a che fare con quella italiana.
    E’ appunto una questione di parametri, di generale vitalità espositiva e propositiva, di fervore e apertura culturale: la Biennale di Berlino può lasciare indifferneti a Berlino; a Milano o a Roma sarebbe una rassegna molto benvenuta.
    In paesi come la Germania sussistono dinamiche culturali che difficilmente sono concepibili in Italia. E queste dinamiche non partono solo dall’alto (finanziamenti, apertura culturale delle amministrazioni locali, ecc.), ma anche dal basso: provate solo ad entrare in una delle 11 Accademie di Belle Arti tedesche, e vedrete che livello di aggiornamento culturale hanno ragazzi di 20-22 anni, la maturità delle loro opere, il rigore delle loro ricerche. E inoltre il rigore della selezione: chi non ha qualcosa da dire non va avanti. Stop.
    Certe tensioni o energie, a Berlino o a Colonia, si sentono proprio nell’aria. Sarà che tornato in “bella Italia” io diventi improvvisamente cieco, sordo e insensibile, fatto sta che ‘ste tensioni io dallo Stivalone non le riesco proprio a percepire…

  4. L’unico difetto rilevante di questa Biennale è che il Martin-Gropius-Bau non ha, come invece tutte le altre importanti sedi espositive berlinesi, un giorno gratuito di visita.

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