07 luglio 2019

Biennale/ L’Approfondimento

 
IMPEGNI E TRADIMENTI
Arte e ambiente, nazione per nazione, a Venezia. Tra paradossi e buoni risultati (seconda parte)

di

Continua la nostra ricognizione “green” dedicata al tema dell’ambiente alla Biennale Arti Visive 2019. 
Asia
Padiglione del Bangladesh. Sponsorizzato dalla Cosmos Foundation, il padiglione appartiene al gruppo Cosmos: “Le attività del Gruppo Cosmos spaziano dai media all’attività di estrazione mineraria, sia di petrolio e gas, che di energia o rinnovabile; il Gruppo Cosmos è in prima linea nello sviluppo energetico”. Questo dice tutto. È un vero peccato, dal momento che il Bangladesh annovera un gruppo straordinario e veramente forte di artisti contemporanei che nel loro Paese si impegnano per l’ambiente, fanno ricerca e si occupano delle sfide ambientali. L’esempio peggiore di come il padiglione di un Paese, in particolare di un Paese marginale, dovrebbe essere allestito. L’appropriazione politica da parte di un governo autoritario.
Padiglione del Pakistan, anche lui per la prima volta a Venezia, presenta l’artista Naiza Kahn e il suo lavoro Manora Field Notes. Il visitatore può esplorare il padiglione attraverso tre stanze comunicanti tra loro, come una mappa dell’isola di Manora, in cui sono esposti materiale archivistico sulla sorveglianza e la navigazione, sculture e due installazioni, sonora e video. A una prima occhiata l’esibizione parla della storia dell’isola di Manora, le sue tradizioni e i suoi artigiani, ma a un secondo sguardo si capisce che sotto la superficie è un altro il tema che l’artista vuole trattare: quello delle sfide ambientali. Se si va a leggere sul sito della IUCN (International Union for the Conservation of Nature), si troverà scritto questo sull’isola di Manora: “Distesa a sud-ovest della città di Karachi, si trova una piccola isola chiamata Manora. Quello che in origine era un villaggio di pescatori ora, a causa della sua posizione strategica, è sede di cantieri navali. Le sue spiagge di sabbia sono inoltre una destinazione gettonata per villeggianti e picnic. I boschi di mangrovie sulle coste nord-orientali non contribuiscono solo all’estetica dell’isola ma fungono anche da vivaio per gamberi e pesci giovani, fonte di sostentamento per la comunità di pescatori. Sfortunatamente quest’isola pittoresca ha la sua buona dose di problemi. Staccata dal continente, Manora soffre di scarsità di acqua potabile e si affida alle cisterne per la fornitura. La bellezza del territorio, inoltre, è stata sciupata dall’inquinamento. L’acqua marina contiene materiali inquinanti, compresi rifiuti galleggianti, petrolio, liquami, carta e plastica facilmente visibili attraversando il canale per raggiungere Manora. Mentre l’isola di Manora contribuisce solo per il 4 per cento alla contaminazione del mare rispetto all’intera metropoli, questo ha un grande impatto sull’attrattività delle sue spiagge, le quali richiamano ogni anno un numero stimato di 150mila visitatori. L’inquinamento nelle zone portuali ha inoltre un impatto negativo sulla vita marina e riduce la durata della vita di navi, barche e altre infrastrutture dovuto alla corrosione ora più intensa”. Le opere d’arte alludono a questa situazione.
Padiglione delle Filippine: situato all’interno dell’Arsenale, gira tutto intorno a politica e dimensioni. Ancora. Un padiglione enorme, un’impresa dal punto di vista tecnico, stipato di materiale, con un gran numero di “commessi” che corrono in giro intimando il visitatore a togliersi le scarpe e camminare sull’installazione parlando del clima politico in una tecnologica installazione a mo’ di cavernoso trompe-l’œil mentre il loro Paese sta distruggendo foreste pluviali e il sostentamento delle popolazioni rurali ed è quello con il più terrificante problema di rifiuti di plastica al mondo. 
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Padiglione del Bangladesh, Palazzo Zenobio, Collegio Armeno Moorat-Raphael
Europa
Padiglione della Finlandia
Al Padiglione finlandese di Alvar Aalto, ai Giardini, i Miracle Workers Collective e l’artista Outi Pieski aprono le porte per uno sguardo nella vita tradizionale dei Sámi e il loro bisogno di un sostentamento integro. La lotta politica del popolo Sámi e il contesto internazionale in cui devono imporsi e difendere la loro esistenza sono rappresentati in questa installazione multidisciplinare fatta di betulle sinuose, cladonia rangiferina e zolle erbose attraverso cui i manufatti tradizionali Sámi (duodji) vengono a unirsi con l’arte contemporanea. I Miracle Workers Collective contribuiscono all’installazione col film The Killing of Čáhcerávga, un montaggio di cinque cortometraggi su migrazione, indigenismo e movimento. È un altro richiamo alla situazione dell’Artico, minacciato da ciò che succede nel nostro mondo contemporaneo, e al fatto che migrazione, cambiamento climatico e distruzione ambientale non sono solo fenomeni astratti di cui leggiamo sui giornali o che vediamo in TV e sui social media. Quello della Finlandia, più che un padiglione è un luogo di passaggio dal curato design architettonico, un luogo intimo dentro ad una Biennale che è altra, incentrata su grandi spazi e installazioni buone per essere vendute; una stanza dov’è possibile lo scambio e un’ambiente per la discussione. Qui, a differenza di altri centri in cui il cambiamento climatico è solo contestualizzato nell’intrattenimento, si possono trovare veri interlocutori con cui confrontarsi sulla sostanza e su come il cambiamento climatico sta influenzando le loro regioni, di quanto le tradizioni delle popolazioni indigene sono importanti per il mondo intero e cosa si stia facendo oltre a sensibilizzare. L’arte non tratta più solo di arte e rappresentazione o di intrattenimento; l’arte contemporanea tratta anche di sostanza e significato, sapere reale e impegno: è un veicolo per il cambiamento.
 
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Miracle workers, A Greater Miracle of Perception
Padiglione francese. L’esposizione è ormai nota, e firmata da Laure Prouvost, Deep Sea Blue Surrounding you, curata da Martha Kirszenbaum. In uno dei giorni della preview ho deciso spontaneamente di mettermi in fila, sapendo che probabilmente ci sarebbe voluta un’ora e mezza per entrare. Ma il tempo e qualche conversazione stimolante all’esterno hanno aiutato. Avvicinandosi all’entrata sul retro del padiglione i visitatori hanno fatto esperienza di un forte odore di fogna: un’introduzione tutto sommato divertente a uno spazio che espone l’élite dell’arte contemporanea. È stata come un’anticipazione di quello che ci si stava per rivelare all’interno, ma anche di uno degli effetti dei cambiamenti del clima e degli effetti secondari dell’innalzamento del livello delle acque. Dentro al ventre di un polpo, un viaggio attraverso la realtà del nostro pianeta e delle nostre società guida lo spettatore verso una sorta di livello subconscio giustapponendo l’esterno, l’apparenza e l’interno, la parte nascosta. L’artista disvela questa tragedia per mezzo di carcasse di uccelli, feci, immondizia, mozziconi di sigarette, bottiglie di plastica, alghe maleodoranti, lattine e volatili vivi, polpi morti, cuffiette smarrite e detriti quotidiani dell’esistenza umana. A tratti sembrava di guardare dentro al Canal Grande, alle Zattere, dove pure si possono vedere tutti questi elementi. Il visitatore cammina su di un pavimento in vetro blu, limpido, che fa da epitome alle acque fertilizzate della laguna, attraverso una sorta di grotta interna con tavoli agli angoli, sedie, strane sculture, fontane, immondizia, ciarpame, un’infinità di oggetti per la casa, schermi con video dappertutto; l’artista in felpa e tuta da jogging che va esibendosi qua e là. Sembra di stare in un incubo in cui i bei sogni che vorremmo vivere vengono trasmessi sugli schermi, giustapposti alla cupa realtà privata di ogni illusione. La fine del sogno, come è scritto sulla scultura di una fontana in uno degli angoli bui del padiglione. L’artista sa come rappresentare con l’arte quello che sta realmente accadendo oggi: noi, i cittadini del mondo sviluppato, vogliamo continuare a vivere nei nostri sogni HD ignorando quello che ci circonda, girandoci intorno, passandoci sopra, ridendone perché non ci appartiene. Possiamo sempre fuggire nel nostro fotoshoppato mondo di pace, nella nostra felicità dai colori artificiali e prenderci un caffè Illy di fronte al padiglione servito in tazzine di plastica (non è uno scherzo, è la realtà, mi chiedo veramente come gli organizzatori della Biennale lo abbiano potuto permettere)! E la parte migliore di tutto questo è noi che aspettiamo ore per entrare, per sentire l’orrore, per poi poter andarcene dopo pochi minuti da quel mondo da incubo e tornare a camminare nel bel sole e i colori di Venezia. La vita è uno schianto.
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Laure Prouvost, Deep See Blue Surrounding You / Vois Ce Bleu Profond Te Fondre
Altro caso europeo interessante e convincente a Venezia, anche se non appartiene al programma ufficiale della Biennale, è stato il simposio dell’artista ambientale scozzese Elizabeth Ogilvy all’Università Ca’ Foscari, il 7 maggio 2019, dove l’artista ha invitato esperti come la storica del clima Astrid E.J. Ogilvy (University of Boulder), Clive Adams, direttore e fondatore del Centro per l’Arte Contemporanea e il Mondo Naturale nel Regno Unito, l’artista Iulia Kovanova e Anna Puccio, la direttrice della Science Gallery di Venezia. L’aura scura dello storico auditorium è stata il contesto perfetto per parlare degli ultimi traguardi dell’artista e proiettare il suo ultimo progetto, il film Out of Ice. Il film ritrae il lavoro di Ogilvy, le sue ricerche e i viaggi in vista della grande installazione titolata con lo stesso nome e ideata, nel 2014, per gli spazi sotterranei dell’Ambika P3 a Londra. Il film mostra lei e il marito in Scozia, impegnati nel gestire una residenza per artisti situata in mezzo alla natura; parla di mentalità indigene, di vite nell’Artico e del lavoro dell’artista con loro, i suoi numerosi viaggi per incontrarli e intervistarli. Il film da voce alle popolazioni dell’Artico. Immagini forti di un uomo in piedi in una pianura innevata mentre guarda l’orizzonte e racconta di quando era bambino e quel paesaggio era popolato da enormi iceberg, di cui ancora sente nelle orecchie il crocchiare. Ti prende un’immensa malinconia, un momento drammatico quando realizzi che le zone polari sono già drasticamente cambiate e che tutto questo sta cambiando il nostro clima, la nostra natura, la nostra esistenza per sempre; non tra 12 o 32 o 42 anni, ma adesso. 
Seconda parte, continua
Anne-Marie Melster
Traduzione dall’inglese di Riccardo Franzetti
Anne-Marie Melster è co-fondatrice e direttrice di ARTPORT_making waves, un progetto curatoriale collettivo che dal 2006 coniuga arte e cambiamento climatico. È una delle curatrici che hanno precorso questo campo e ha lavorato con le Nazioni Unite, numerosi governi e città, università, scuole, film festival, musei e istituti di ricerca. Attualmente è impegnata nel lancio di un progetto a larga scala, internazionale e interdisciplinare, di arte-scienza dedicato all’Oceano, per Berlino, Venezia e Marsiglia.

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