27 aprile 2008

CANTIERI E CANTONATE

 
Se la Nuova Stazione Tiburtina a Roma non sarà come ve l’hanno mostrata in pianta, almeno stavolta la colpa non ricadrà sul governo. E neppure sulle FS. Certe cose capitano, ma può capitare anche di peggio, come a Vienna. Piccole disavventure nella inevitabilmente prestigiosa carriera di Zaha Hadid. Che proprio nella capitale austriaca mette d’accordo solo i senzatetto...

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Anticipando in un articolo su L’Espresso i contenuti dell’allegato terzo volume di Arte Contemporanea sottotitolato Anni Settanta, Rita Tripodi così conclude: “Il primo febbraio del 1977 venne inaugurato a Parigi il Beaubourg di Piano e Rogers. Il futuro era cominciato”. Parole sacrosante. A oltre trent’anni da quell’anno zero dell’arte, il futuro comincerà anche in Italia, a Roma -e chi non lo sa?- quartiere Flaminio, via Guido Reni, quando sarà inaugurato quel chilometrico gigante di cemento armato denominato Maxxi, che visto in pianta o nei rendering sembra un terminal ferroviario. Ormai siamo agli sgoccioli, con un pubblico in trepidante attesa oltretutto perché, come sanno anche i muri, il manufatto reca una firma molto autorevole: Zaha Hadid, la gettonatissima archistar inglese di origine irachena.
Sorpresa! Qualche settimana fa il magazine illustrato della compagnia aerea Air One, edito con testi bilingue a beneficio dei propri numerosi passeggeri, dedicava un’intera pagina alla costruenda Nuova Stazione Tiburtina di Roma. Poche parole per lasciar spazio alle immagini, ché, come si dice, parlano da sole. E cosa dicono? Che tra le parole e le cose c’è un abisso quando, nientemeno, il progetto Maxxi di Hadid viene scambiato per la futura Nuova Stazione Tiburtina. Un granchio colossale. In verità, però, la “bufala” poteva sembrare oltremodo veritiera a un ignaro passeggero poiché, come s’è detto, i “soliti” disegni del Maxxi -quelli che siamo abituati a vedere da anni- possono facilmente generare l’equivoco. Ed era normale che qualcuno prima o poi ci cascasse… Ma sperare che ci cascasse proprio un magazine a uso turistico, francamente, era pressoché impossibile. Ora mettiamo che, per assurdo, qualche cliente Air One con scalo a Roma volesse fare il viaggio di ritorno in treno e prendesse sul serio quello che gli è stato messo sotto gli occhi: chi glielo va a dire che quel nuovo impianto non è una stazione, ma semplicemente -semplicemente?- il luogo dove comincia il futuro dell’arte italiana?
La mobile art gallery di Zaha Hadid
Insomma, con la progettista anglo-irachena siamo alla resa dei conti, non solo al quartiere Flaminio, perché se Roma chiama, Vienna risponde… Ma in maniera sibillina. Ecco il quesito: Vienna ama o non ama Hadid? Non c’è dubbio, “Vienna ama Zaha Hadid”. Una cattedra attribuitale con una pioggia di applausi alcuni anni or sono per dare più lustro al corso di laurea di Architettura nella rinomata Universität für Angewandte Kunst, l’università delle arti applicate che ha sede sul Ring proprio accanto al Mak. Beninteso, non un incarico temporaneo o onorifico ma pragmatisiert, cioè di ruolo. Inamovibilità e, a tempo debito, una lauta pensioncina tanto per non farle dimenticare, in età avanzata, il bel Danubio blu.
Ma nel frattempo, per una sorta di impietosa legge del contrappasso, incalza inesorabile un giudizio di segno opposto: “Vienna non ama Zaha Hadid”. In altre parole, nessuno vuole abitare un complesso residenziale da lei progettato e che sembra rievocare certe bizzarre soluzioni dei mitici Archigram, gruppo di architetti londinesi che, tra il 1961 e il 1974, sfoggiava un mix di creatività sperimentale e ironia a metà tra fumetto e utopia futurista. Una visionarietà mai sopita anche dopo lo scioglimento dell’associazione: è di Peter Cook, ex Archigram, la “aliena” Kunsthaus di Graz (2000-03) progettata insieme a Colin Fournier, una realizzazione che ai due inglesi è valsa lo Stirling Prize nel 2004.
[Zaha Hadid] Peter Cook & Colin Fournier - Kunsthaus - Graz - photo Zepp-Cam, 2004
Il complesso residenziale di Hadid ha un aspetto tutt’altro che faraonico ma ugualmente inconfondibile, tant’è vero che da un paio d’anni è negli highlight della capitale austriaca. Si presenta come una serie di corpi geometrici sghembi e spigolosi di colore bianco con le gambe oblique. Oblique anche le finestre. In definitiva, alcuni dei volumi abitativi si reggono su pilastri di cemento non perpendicolari al terreno. Quando poi, sotto questi corpi sghembi, scorre un vecchio e stretto viadotto ferroviario in disuso, ora recuperato a percorso pedonale: connotazioni decodificabili come ironica allusione alle atmosfere opprimenti del film Metropolis (1927) di Fritz Lang. L’ubicazione è lo Spittelau, lungo il Donaukanal, zona non centrale, ma pur sempre integrata all’area urbana storica e ben collegata. Semmai di negativo c’è che il complesso è lambito da trafficate arterie stradali e ferroviarie, e lì vicino c’è un inceneritore con un’altissima ciminiera la cui notorietà -un must da cartolina illustrata- è dovuta all’intervento decorativo dell’artista ecologista viennese Friedensreich Hundertwasser.
Nonostante tutto, la zona non è in stato di degrado. Anzi, il committente vi ha ravvisato una sua particolare attrattiva urbanistica consistente in quella certa freddezza tardomoderna potenzialmente riconvertibile in pregio: ecco il pre-testo che ha indotto a bussare alla porta di un’archistar. A cose fatte, non c’è un motivo concreto per non abitarci, quando anche il costo d’affitto degli alloggi è stato ribassato sensibilmente. C’è solo che questi edifici non piacciono, non piacciono a nessuno. La società proprietaria aveva avuto vantaggi dall’amministrazione comunale in cambio di una politica edile di valore socio-culturale. Così, dopo infruttuosi tentativi di insediarvi una colta clientela di rango, si è rivolta alle tribù studentesche, ma anche queste hanno risposto picche.
Zaha Hadid e il progetto della Stazione di Afragola
Per ultimo, mentre la società è in fallimento, qualcuno finalmente ha suggerito di mettere gli alloggi a disposizione dei senza-tetto, a costo zero naturalmente. Incredibile a dirsi, pare che neppure loro ne vogliano sapere. Pare che i senza-tetto preferiscano acquartierarsi alla meglio nella idilliaca artificialità della Donauinsel o nella conviviale atmosfera degli anfratti nei vecchi quartieri del centro. A loro scusante va detto che forse non hanno mai sentito parlare di Zaha Hadid.

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franco veremondi

[exibart]

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