14 settembre 2012

Caramba in galleria e altre storie

 
La finanza irrompe nell'arte. È arrivato il giorno del giudizio o la si farà franca? Ne abbiamo parlato con un collezionista, un gallerista e un avvocato all'indomani dei blitz nelle gallerie e case d'asta. E abbiamo scoperto quello che già sospettavamo: un dedalo intricato di difficile interpretazione, che lascia libere falle a chi cerca scappatoie. E un mondo che senza il nero rischia di non sopravvivere

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Il comunicato arriva ieri mattina, intorno alle 8.30, pubblicato sul sito della Guardia di Finanza: un’operazione compiuta in collaborazione con la Siae ha portato alla scoperta di un’evasione di 14 milioni in operazioni sospette o omesse (che vuol dire riciclaggio), di oltre 2 milioni di euro per quanto riguarda il diritto di seguito e di 3 milioni di transazioni in denaro non tracciabile, soprattutto in contante. Colti in flagranza di evasione anche una casa d’aste romana in via del Babuino, accusata di illeciti per 600mila euro, e una galleria di Padova, con un traffico “evaso” di 350mila euro. Entrambe ora sono soggette ad un’ordinanza di chiusura, che durerà sei mesi. Roba pesante, insomma.
Come molti hanno commentato, pare che ora tocchi all’arte fare i conti con la finanza, dopo le varie attività terziarie e imprenditoriali colpite. Un’arte che in Italia non gode di nessuno sgravio fiscale e che, solo per fare un esempio, nel Belpaese mantiene un’Iva del 21 per cento sulle vendite, quando la media dei Paesi europei si attesta generalmente dal 6 al 9 per cento. Giorgio Fasol, uno dei più influenti collezionisti italiani, da tempo dichiara che è ora di uscire dal nascondiglio, ma ad una condizione: che si mettano gli operatori del settore in grado di operare legittimamente, perché con queste condizioni non si può andare avanti. «Una prima defiscalizzazione per i privati che investono in arte sarebbe il primo passo. L’Iva poi deve essere abbattuta, ma soprattutto l’imponibile, come in Francia. Se si riuscisse ad ottenere questi risultati, è innegabile che chi opera nell’arte dovrà farlo legalmente. Solo allora, dopo aver messo gli operatori in grado di lavorare nelle giuste modalità, la finanza potrà fare controlli. E giustamente punire chi procrastina il fuori norma». Ma per Fasol la storia che le Fiamme Gialle hanno fatto venire a galla ha quasi il sapore di un atto intimidatorio nei confronti di tutto un sistema: «Non credo sia stata una mossa simile a quella scattata a Cortina nell’inverno scorso, probabilmente vi sono state segnalazioni intorno a gallerie che già erano conosciute per il loro “traffico”».
La pensa così anche il gallerista bolognese Enrico Astuni, che vede l’operazione come «un atto per raccogliere numeri che facciano impressione, per mettere alla prova un altro settore: le azioni relative al fisco, dove l’economia di un intero sistema è legato a un filo delicato, dovrebbero essere promosse in via preventiva e non punitiva». Soprattutto perché, come sa chiunque che opera in questo mondo, il “sommerso” è una parte integrante del sistema italiano che, portato alla luce, probabilmente produrrebbe una crisi molto pesante: «Questa ventina di gallerie interessate forse non hanno operato correttamente, ma è altresì vero che se la finanza dovesse battere a tappeto gli incassi di una fiera d’arte qualsiasi tutti finirebbero nei guai», ribadisce Fasol. Che rinnova un invito a galleristi, collezionisti e artisti, a pensare dei suggerimenti da rivolgere alla classe politica, per sottoporre il problema dalla viva voce di chi nel sistema dell’arte è immerso tutti i giorni e che con i suoi mali deve fare i conti.

Una serie di condizioni che però, secondo Silvia Segnalini, avvocato esperto nel Diritto dei Beni Culturali, collezionista, autrice e docente all’Università La Sapienza di Roma, non sono attuabili nel regime di crisi attuale: «Una defiscalizzazione, ora come ora, è possibile solo a livello ipotetico. Si cerca di sfuggire al diritto di seguito perché se oltre al 21 per cento dell’Iva si va a sommare anche la percentuale del diritto d’autore su ogni opera venduta i costi fiscali diventano esagerati. Da qui l’idea che convenga realizzare incassi con il mercato nero. La proposta di defiscalizzare il privato cittadino che vuole collezionare è in ballo da anni, ma non è il Ministero dei Beni Culturali che non l’appoggia, bensì quello delle Finanze». Che, aggiungiamo, in un periodo come questo ha ben altri grattacapi.
Dello stesso avviso è anche Enrico Astuni, che afferma però che «il diritto di seguito è una tassa che prima o poi, in ritardo o meno, alla Siae va corrisposta». Se si emettono fatture, ovviamente, cosa che però è quasi impossibile. Astuni ci fa un piccolo resoconto di come deve campare una galleria d’arte seria: «Se un gallerista compra un’opera da un’artista gli corrisponde il 50 per cento circa. La mette poi sul mercato cercando di guadagnarci qualcosa, ma se si conta che il collezionista spesso l’iva non la vuole pagare e che il diritto di seguito, anche se in ritardo, va corrisposto e le tasse che arrivano a circa il 53 per cento, non si porta a casa nulla. Se un gallerista paga tutto quello che deve pagare, dalle utenze alle pubblicità, agli artisti ai curatori, spesso non va nemmeno in pari con le spese».
Ma tentiamo di andare più a fondo: secondo la Segnalini ci sono due meccanismi che non funzionano: uno è il sistema delle legge antiriciclaggio, che è stata un po’ alleggerita nell’ultima versione per una serie di questioni legate alla privacy relative alle case d’asta e ai grandi collezionisti che non amano la pubblicità: se è vero che queste misure sono un po’ più morbide, alla fine il rischio è proprio che passi denaro non tracciato, impossibile da ricondurre all’origine. Come accaduto nei 3 milioni intercettati dalla Guardia di finanza.

Il diritto di seguito invece, afferma Segnalini, «era stato concepito come uno strumento per far emergere il sommerso, ma così come è stato attuato dimostra proprio il suo mancato funzionamento. Sulla carta il diritto di seguito ha solo caratteristiche positive; in fin dei conti si tratta di far godere ad un autore lo sviluppo produttivo della propria opera, ma è tutto sbilanciato». In che senso? Il tetto massimo del diritto di seguito è 12mila e 500 euro, ma meno costa l’opera e più alto è (esempio: se un’opera costa dai 3mila ai 50mila euro, è al 4 per cento. Se invece costa dai 200mila ai 350mila euro allora si abbassa al 1 per cento). E se stiamo parlando di opere vendute ad alte cifre, cosa può importare ad un artista o agli eredi di ricevere lo 0,25 per cento su quanto già guadagnato con la vendita?
Il 4 per cento, quindi, incide soprattutto su transazioni basse, come quelle che caratterizzano la maggior parte del mercato italiano. Ma incide nelle finanze del gallerista. Per questo motivo versare il famoso “diritto di seguito” della Siae diventa un onere da aggirare.
Segnalini ricorda che le maglie dei decreti attuativi di questa “clausola” sono spesso farraginosi, e si prestano a cavilli che, per chi vi lavora a contatto quotidianamente, sono facilmente eludibili, con il risultato che si vende senza dichiarare, tenendo in vita un intero sistema. E Astuni rincara la dose, delineando uno scenario grottesco, devo persino la finanza e la Siae faticano a venirne a capo, con conseguenze disastrose per gli operatori: «Il modello del diritto di seguito è una legge assurda, scritta male: la finanza fa una multa ad una galleria che deve pagare, supponiamo, 10mila euro di ricevute arretrare. La galleria inizia a pagare, ma la finanza fa una multa ulteriore di 2mila euro su ogni fattura presentata. Una cifra che dunque sale esponenzialmente, ma il problema vero è un altro: se una fattura-multata non viene pagata, la galleria deve chiudere per almeno 6 mesi, per ogni multa. Ovvero: se ipoteticamente un gallerista ha 10 multe non pagate, e nella sanzione non si attua il cumulo, dovrà chiudere 6 mesi per 10 volte. Se vogliono farci chiudere tutti lo dicano e noi chiuderemo», chiosa il gallerista.
La soluzione? In tutti i casi rimettere la mani alla giurisdizione che si occupa di questa causa. Mentre Segnalini risponde che una soluzione potrebbe essere lavorare attraverso contratti, con trasparenza, come avviene nel mondo anglosassone, dove tutto è messo nero su bianco, e gli episodi di questo genere non fanno parte della routine. Modalità, estranea all’Italia, che innescherebbe un circolo virtuoso, anche se forse inizialmente molto doloroso.

Insomma, seguendo le linee tracciate dall’avvocato, al sommerso per ora non si sfugge: «La legge antiriciclaggio, per chi si occupa di arte, più i meccanismi attuativi del diritto di seguito hanno portato a una soluzione che non risolve il problema. Questo caso aprirà un faro, nel breve e medio periodo probabilmente non si ripeteranno questi episodi, ma se non si cambia il malcostume si farà presto a tornare alle origini».
Quello che insomma si pone, anche per l’arte, è una sorta di cura alla “lacrime e sangue”, per un futuro più roseo. È d’accordo anche Fasol, che auspica che tutti possano voltare pagina, ma con l’aiuto dello Stato e non in un rimbalzo continuo della patata bollente. Al momento, però, rimane il fatto che è il “sommerso” a mandare avanti il sistema perché, laddove l’arte opera legalmente, non ci sono le condizioni per poter mantenere il mercato. Dalle vendite in gallerie alle fiere internazionali dove, aggiunge Astuti, il gallerista italiano parte con uno svantaggio di 20 punti rispetto ai colleghi europei. Così, purtroppo, i comportamenti da furbetti del quartierino rimangono le uniche possibilità di sopravvivenza. Senza contare che l’arte è sempre stata il porto franco dove far approdare operazioni illecite di una certa levatura. Per restare alle cronache recenti, da Tanzi in poi, ex patron della Parmalat, non c’è scandalo che non abbia il suo rivolto di tesoretto (o tesorone) d’opere nascosto in cantina.
Quello del mercato d’arte è, insomma, è un’altra cartina di tornasole dello stato di salute economico, culturale, sociale e fiscale della penisola. Che cerca in tutti i modi di farla franca, anche a fronte di tassazioni eccessive che altrove sarebbero impensabili. E inaccettabili.

1 commento

  1. E’ vero le tassazioni ai nostri livelli in altri paesi sono inaccettabili, ma non dimentichiamo che poche righe sopra si specifica che in altri paesi si lavora per contratto mettendo tutto nero su bianco e con la massima trasparenza.
    Diciamolo: in Italia non si vogliono pagare le tasse, non si vogliono contratti trasparenti…si vuole continuare a ingrossare una zona grigia, dove qualsiasi forma di riciclaggio sia possibile. Nel mondo dell’arte non deve entrare solo la GdF, ci vorrebbero anche dei bei controlli della Direzione Distrettuale Antimafia.

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