13 settembre 2010

ERGO SUM

 
di marcello faletra

L’arte è la più vigliacca delle alternative. Se riuscissimo a impegnarci con la gente come ci impegniamo nell’arte avremmo una vita molto più piena, brillante... La vita significa vivere, non fare un cazzo di arte qualsiasi”, afferma in un’intervista Damien Hirst. Senza peli sulla lingua, Hirst centra il problema. Mettendo in gioco il suo mestiere d’artista, confessa la vanità dell’arte di fronte alle contraddizioni sociali...

di

Perché impegnarsi nel sociale quando è più facile “fare
un cazzo di arte qualsiasi
”? Se accettiamo di Damien Hirst le provocazioni più estreme, esposte
nei più importanti musei del mondo, allora non dovremmo avere alcuna difficoltà
ad accettare questa confessione, che in parte lo riscatta dalle sue stesse
banalità e in apparenza lo tira fuori dalla mischia degli eroi della
contemporaneità. In un certo senso è lui che usa strategicamente il mondo
dell’arte per arricchirsi, avere successo e dire quel che caspita gli pare. E
ci riesce.

D’altra parte, la confessione di Hirst è l’indice di
quanta banalità vi sia nell’arte “contemporanea” e come attorno a questa
arrogante banalità vi siano un alone di rispetto e un senso di timore a
chiamarla “un cazzo di arte qualsiasi”. Quel che ci dice Hirst è che il banale ha la meglio
sull’arte e che in un certo senso lui, che preferirebbe “impegnarsi con la
gente
”, è però
costretto a fare dell’arte “qualsiasi”. L’arte in questo scenario è come un giocattolo nei
confronti del quale si è sottomessi, dolcemente schiavizzati: una specie di
sindrome da Peter Pan, il bambino che voleva sfuggire il proprio futuro.
Apprendiamo adesso che la banalità che si è infiltrata nell’arte attraverso i
suoi enfant prodige è un grande giocattolo di distrazione di massa con cui un intero
sistema gioca senza limiti d’età.

Ma, come confessa Hirst, è un’infanzia priva d’innocenza
perché è “vigliacca”. E si sa che i bambini sono a volte crudeli con gli animali.
Vivisezionandoli ed esponendoli in trofeo, sperimentano la superiorità
dell’uomo sulla bestia. La bestia non è un “soggetto” e, come dice Adorno, “la
carezza sulla pelle dell’animale significa che la mano, qui, può distruggere
”. Damien Hirst - Virgin Mother - Plaza of Lever House, New York City - photo David Shankbone, 8 agosto 2006L’occhio vitreo delle bestie
imbalsamate ricorda il terrore procurato dagli incubi d’infanzia, di fronte a
cui gli adulti infantilizzati si vendicano esponendone lo scalpo. Insomma, per
dirla con Kant quando parlava di Illuminismo (e con Hirst che auspica un’uscita
dalla vigliaccaggine), questi giochini di società prolungano lo stato di “minorità” di fronte al banale causato
dalla pigrizia imputabile solo a se stessi
. Uno stato di minorità, di dipendenza e
assuefazione al banale che, come dice Hirst, è lo specchio del fallimento anche
dell’arte. Il fallimento di questa età neoliberista con la sua cornice estetica
postmoderna, l’età che si è voluta “liberata” dalla modernità e dal futuro, e
che coincide integralmente con l’impero del mercato.

Questo fallimento è uno dei grandi tabù del presente. In
effetti, in un mondo che abbonda di ricette per il successo, non c’è posto per
pensare al fallimento. L’arte dunque non muore, e non ha alcun senso pensare
che sia morta, ma di fronte ai disastri del sociale può senz’altro fallire. Fu
di fronte ad analoghi disastri che Breton affermò una volta: “Per quanto mi
riguarda, i soli quadri che amo, compresi quelli di Braque, sono quelli che
reggono davanti alla fame
”. Perché il banale è questa declinazione infantile di ogni ideale o
valore, cioè la scomparsa della responsabilità a cui segue l’epifania globale
della spazzatura, e per noi che non abbiamo più un Dio, il banale è
l’attrattore strano che risucchia il nostro immaginario, una specie di pulsione
di morte che ci fa assistere allo sterminio quotidiano di tutto ciò che ha la
presunzione di essere un “valore culturale”.

D’altra parte, l’irresponsabilità è diventata un diritto
preteso anche dai governanti per gli atti criminosi compiuti ai danni del bene
comune. Se c’è un enigma dell’arte oggi, questo non è nell’arte ma nello
spettatore, nel suo encefalo spugnoso che si fa recettore passivo davanti a
opere arrogantemente imbecilli.

Jan Fabre - Another Sleepy Dusty Delta Day
Gli atti di crudeltà deliberata, di mortificazione della
carne, di vessazione dei sensi, di cristianizzazione del corpo (c’è una vera
epidemia del corpo crocifisso) che vengono inflitti allo spettatore sono così
massicci che richiedono da parte di questo una complicità segreta con
l’artista. Una partecipazione consenziente all’elevazione della soglia di
tolleranza al più che banale, cioè a “un cazzo d’arte qualsiasi”, come giustamente dice Hirst.

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*articolo pubblicato su
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4 Commenti

  1. Condivido in pieno. Anche per questo il blog come strumento/mezzo economico e veloce permette una certa distanza e soprattutto la possibilità di avere molto tempo da dedicare ad altro. L’arte diventa una sorta di palestra per ogni altro ambito, e questo è assolutamente salutare: oltre ad avere una vita più piena e brillante, e anche possibile non cadere nella contraddizione sociale.

    Massimo Grimaldi ha vinto recentemente il concorso indetto dal Maxxi di Roma per l’acquisto di una sua opera. L’opera è stata finanziare con 600.000 euro un ospedale di Emergency, il cui stato dei lavori viene documentato e aggiornato all’interno del museo. Una buona azione che, con il principio del ready made (brad pitt, angiolina jolie o bill gates donano milioni di dollari a cause benefiche) diventa “opera” concreta. Scatendando poi una serie di interrogativi su questa azione: speculazione? estetica? ecc; ma la cosa è assolutamente salutare per riflettere sul ruolo dell’arte, oggi.

  2. SEMPLICEMENTE PATATETICI!!!!!!!!!
    Se un’affermazione del genere l’avesse ‘pontificata’ qualsiasi altro artista che non fosse stato il di(vino) Hirst non sarebbe stata minimamente considerata da Exibart.
    Il di(vino) può tutto perchè tutto ciò che tocca o dice diventa ORO, di m…a, ma ORO PER SE’ E PER QUANTI GLI HANNO LECCATO E CONTINUANO A LECCARGLI IL C..O.
    BRAVO HIRST TI STIMO SOLO PER LE TUE CAPACITA’ DI PIGLIARE PER I FONDELLI INTELLETTUALI,COLLEZIONISTI E QUANT’ALTRO…APPASSIONATAMENTE. POI VERRA’ LA STORIA ED ALLORA SARANNO “UCCELLI SENZA ZUCCHERO” PER TUTTI.
    P.S.
    IL VERO PROBLEMA DELL’ARTE CONTEMPORANEA E’ CHE I COMMITTENTI (quelli che “cacciano” i soldoni per intenderci) non sono più quelli di una volta…e gli “artisti” restano espressione dei loro limiti.

  3. condivido il messaggio precedente
    Hirst = Avida Dollars!!
    quindi non posso proprio prendere sul serio queste sue affermazioni..
    Ipocrita! … e imbecille

  4. Più che mettere in discussione il mestiere d’artista, attraverso un vero rifiuto di fare arte, D. Hirst, gioca con gli strumenti della comunicazione generalizzata, amplificando così, un messaggio stucchevole e qualunquista. Non si rende conto che si vive in una società alienata e divisa in classi sociali – in cui l’opera d’arte mercificata, viene fruita come un “reality televisivo”. L’affermazione, “La vita significa vivere, non fare un cazzo di arte qualsiasi” non è nuova nella storia dell’arte. Forse, riflette più uno stato di personale disagio esistenziale, che una vera scelta di campo nei confronti del sistema mediale e malato dell’arte. Non è possibile un pensiero critico che non sia anche, in ogni sua riflessione, una denuncia efficace sulle contraddizioni sociali e sul ruolo che oggi svolge l’arte e la cultura. In questo senso, le sue affermazioni rischiano l’evanescenza, tale da svilire la sua stessa opera.

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