23 gennaio 2006

Il cinema, morto e contento

 
di riccardo venturi

Il cinema? E’ morto. Parola del regista inglese Peter Greenaway. Che di immagini in movimento se ne intende. In una recente conferenza spara a zero sul presente del linguaggio cinematografico, dato per spacciato. E dà una ricetta, in quattro punti, per uscire dall’impasse. Esiste dunque un’esperienza visiva pronta a sostituire la settima arte? Lui è pronto a giurarci...

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Forse non tutti se ne sono accorti, ma il cinema è morto. Morto per davvero, a differenza della pittura, che risorge ogni volta dalle sue ceneri come la fenice. La data del decesso risale, per la precisione, al 30 settembre 1983, giorno in cui vengono messi in commercio i primi telecomandi per la televisione. Con questo colpo da maestro cominciava l’incontro pubblico con Peter Greenaway organizzato dal Centre Pompidou di Parigi lo scorso ottobre. L’occasione era la proiezione in anteprima del suo ultimo lavoro, finora passato solo al Festival di Cannes: A Life in Suitcases.
Munito di telecomando dunque, il telespettatore spezza, secondo Greenaway, la singolarità e la linearità del film, aprendosi ad un’esperienza inedita che gli permette di vivere –in modo simultaneo quanto rapsodico– diversi contesti visivi. Negli ultimi vent’anni la TV, in sostanza, è stata più sperimentale del cinema. A morire è il dispositivo storico della sala cinematografica, in cui un gruppo di individui immerso nel buio punta lo sguardo in una sola direzione per un tempo determinato. Una visione passiva che annichilisce ogni esperienza interattiva e multimediale, riducendo lo spettatore a un animale notturno. In altri termini, rilancia Greenaway con una logica spietata, bisogna riconoscere che siamoUn ritratto di Peter Greenaway visualmente analfabeti, soprattutto davanti alle possibilità visive aperte dalle nuove tecnologie, di cui il suo ultimo film costituisce un primo campionario ragionato.
In fondo il medium cinematografico, dalle origini ad oggi, non è cambiato poi così tanto; un po’ di teatro, un po’ di letteratura, un po’ di pittura: sono questi gli ingredienti che per André Bazin, sin dagli anni venti, ne hanno costituito la natura. A partire da The Pillow Book (1995), Greenaway ha così cominciato a gettare le basi per un cinema del XXI secolo, un cinema “in the present tense”, una nuova esperienza totale. Prima di tutto però, occorre reagire alle quattro tirannie del cinema: 1) lo schermo; 2) il testo; 3) l’attore; 4) la macchina da presa.
1) Contro lo schermo inteso come finestra aperta sulla realtà esterna, un’idea che risale alla griglia prospettica della pittura rinascimentale. Bisogna invece moltiplicare gli schermi, usarli sì come finestre, ma di un computer. Secondo un adagio di Godard: “il mondo è intorno a noi e non semplicemente davanti a noi”. Così Greenaway ha recentemente proposto una visione multipla e simultanea di Casablanca, sezionato in 300 scene.
2) Contro il testo che ha fatto del cinema un cordone ombelicale della letteratura, una succursale della libreria. Il cinema non è la sceneggiatura, le immagini non devono illustrare un testo scritto e conformarsi agli stessi dispositivi narrativi. Preziosi anche qui i consigli di Godard che suggeriva, una volta ottenuti i finanziamenti, di buttar via lo script e di cominciare a girare.
Peter Greenaway, The Tulse Luper Suitcases - Film 3 - From Sark to Finish
3) Contro l’attore-icona, il divo. Tulse Luper, personaggio principale di un film ferocemente antinarrativo, è “un nome senza storia”, personaggio le cui vicissitudini sono il prodotto della fantasia di un amico che gli è sopravvissuto. La vita di Tulse Luper, che fu rinchiuso in una sessantina di prigioni sparse per il mondo, diventa l’occasione per ripercorrere gli episodi salienti della storia europea del Novecento.
4) Contro la macchina da presa, il cui mito ha creato quello che viene curiosamente chiamato “cinema d’autore” (in inglese “writers’ cinema”). La strada non è insomma quella del cinema d’avanguardia o sperimentale, così di nicchia e ostinatamente underground che le nuove generazioni non conoscono cosa hanno fatto quelle precedenti.
Ma A Life in Suitcases è un film o no? In realtà la versione di due ore non è altro che un condensato di quella originale di sette ore. A sua volta, quest’ultima fa parte di un progetto ambizioso che comprende una serie di 92 DVD, un sito internet, un’installazione interattiva, un videogioco nonché una serie di mostre che da anni girano l’Europa. Del resto il film integra immagini girate da giovani videoartisti e gestisce una mole immensa di fonti d’archivio.
Peter Greenaway, The Tulse Luper Suitcases - The Moab Story
John Cage sosteneva che se si introduce il 20% di innovazione in un’opera d’arte si perde automaticamente l’80% del pubblico. Che abbia invece ragione Greenaway –con il suo strepitoso successo- a smentire drasticamente l’assunto?

riccardo venturi

link correlati:
www.tulselupernetwork.com
www.kasanderfilm.nl

[exibart]

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