16 dicembre 2012

Il giudizio è impossibile. Viva il giudizio/1

 
Tra arte e sport esistono curiose analogie. La tensione, la coscienza di quello che si sta facendo, la sfida con se stessi, la competizione. Ma se nello sport contano i centimetri, che cosa determina il valore dell'opera? Il mercato, o altro? E che cosa si "vince" alla fine? Pubblichiamo la prima parte di un bel testo che Luca Bertolo ha proposto ad Exibart sulla pratica del giudizio nell'arte

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Chi vince tra Philip Guston e Donald Judd? È più forte Giulio Paolini o Sigmar Polke? C’è qualcuno tra gli artisti italiani che batte in poeticità Marcello Maloberti e Alessandra Spranzi? Immagino già le proteste: sono domande assurde, stupide, mal poste. Ok, ricominciamo da capo. Tra aprile e giugno di quest’anno si è svolto a Torino un nuovo ciclo di incontri coordinati da Progetto Diogene intitolato “Apnea”. Ideato da un gruppo di artisti, Progetto Diogene si è contraddistinto in questi anni per la notevole qualità delle sue iniziative, frutto di un pensiero autonomo al di qua di ogni moda culturale, una rarità nel sistema dell’arte italiano. La sfida di “Apnea”, (ideata da Franco Ariaudo), è stata quella di mettere a confronto l’approccio a una disciplina sportiva con l’attitudine artistica. Dei sei incontri, i primi quattro si possono vedere online (www.progettodiogene.eu/?page_id=212). E ne vale la pena.  

Un parallelismo tra sport agonistico e arte si espone subito al rischio di fraintendimenti, ma è un rischio stimolante. Agonismo: impegno e spirito di competizione nello svolgimento di una gara sportiva. Agōn (in italiano, Agone) è il termine, dal significato di gara o disputa, con cui, nell’antica Grecia, e successivamente anche a Roma, si indicò una manifestazione pubblica consistente in gare e giochi organizzati in occasione di celebrazioni religiose. Lo spirito agonistico non si limitava all’atletica, si istituirono anche gare musicali e drammatiche. Da lì al Turner Prize il passo è breve. I premi presuppongono per forza una forma di competizione. C’è qualcosa di male? Sicuramente c’è qualcosa di problematico, dato che una competizione degna di questo nome può avvenire solo se le diverse performance in gara tra loro sono omogenee (un lancio del giavellotto di 90 metri non può né battere né essere sconfitto da un lancio del martello di 85 metri). Il punto è che l’arte, accoglie e valorizza l’eterogeneità delle sue espressioni. Naturalmente si può, come si è fatto tante volte, suddividere la competizione in categorie più specifiche: pittura, scultura, video etc, ma anche così, date le peculiarità dell’arte contemporanea, non mi pare si riesca ad aggirare il problema.

Si possono davvero paragonare opere come quelle, mettiamo, di Joseph Beuys, di Tony Craig, di Thomas Houseago, di Gedi Sibony, frutto di approcci tanto diversi alla scultura? E La ballata di Trotsky di Maurizio Cattelan (un cavallo impagliato sospeso al soffitto) a quale categoria appartiene, a quella delle tassidermie? Si possono giudicare una scritta di Lawrence Weiner e una di Joseph Kosuth in base a quale delle due risulta meglio impaginata sulla parete?

Ma torniamo agli incontri di “Apnea”. All’inizio del suo talk, la giovane artista e saltatrice con l’asta Giorgia Vian, spiega di essersi avvicinata allo sport per un bisogno molto preciso, quello di poter misurare i suoi progressi: «Nell’arte spesso non si ha un’esatta percezione del proprio miglioramento, qui invece ci sono i centimetri». Ancora più importante dei centimetri, precisa, è il fatto stesso di superare un ostacolo in maniera oggettiva e incontrovertibile: o l’asticella cade o rimane su. D’altra parte, creazione artistica e salto si assomigliano, in quanto entrambi determinati al contempo dalla precisa coscienza di quello che si sta facendo (analisi, momento critico) e dall’abbandono o perdita di controllo (del corpo nel caso del salto, della razionalità nel caso del disegno). Si tratta di trovare un bilanciamento tra queste polarità, ma non nel senso di elaborare uno schema univoco. Al contrario, la Vian parla di allenamenti consistenti nel «dare sempre dei problemi nuovi al corpo».

In un altro incontro della rassegna, l’ultrasessantenne campione di corsa estrema Marco Olmo risponde ironicamente a chi tra il pubblico gli chiede di svelare la formula dei suo suoi allenamenti. Olmo sottolinea che la corsa è per lui una ragione di vita, non un lavoro, e tanto detesta il business che avvolge lo sport, quanto trova assurda l’idea di ridurre i suoi allenamenti – l’esperienza del correre ogni giorno in mezzo ai paesaggi alpini della zona in cui vive – a una dimensione seriale, numerica, ciecamente devota a al rapporto km/min.

La competizione può svilupparsi anche in assenza di concorrenti. Un atleta si allena in primo luogo per superare il proprio record personale. Non molto diversamente, un artista insegue l’opera con la O maiuscola. Esiste un’intera letteratura attorno alla tematica della sfida con se stessi, da Michelangelo ad Arshile Gorky, dove le ragioni dell’arte e della vita s’intersecano indissolubilmente e spesso in modo drammatico. Il critico americano Raphael Rubinstein, sostiene che «sebbene droghe e suicidi facciano ancora strage (penso a Jeremy Blake, Dash Snow, Mike Kelley), si ha l’impressione che gli artisti non soffrano più come Cézanne e Giacometti, Pollock e Khalo, nel senso di soffrire specificamente per la loro arte». Se le cose stanno davvero così, la domanda cruciale è se questo fenomeno abbia un riverbero sulla qualità delle opere. Rubinstein è dell’idea che «probabilmente non perdiamo niente d’importante se gli artisti non sono più tormentati da dubbi e ansie rispetto alla propria vocazione, rispetto a come o addirittura se fare un’opera d’arte». Di sicuro rimane il fatto che, oggi come in passato, è difficile per un artista valutare la qualità del proprio lavoro. Eppure ogni singola tappa di un processo creativo non può che essere il risultato di un giudizio. In altre parole, non diversamente da molte altre attività (dalla fabbricazione delle scarpe alla prognosi di una malattia), anche l’arte praticata seriamente sembra comunque soggetta a un ethos: far bene quello che si fa.

Ai greci antichi era noto che ci sono delle quantità che non si possono paragonare tra loro, come per esempio un numero razionale e uno irrazionale (un numero con una sequenza infinita di cifre dopo la virgola). Il concetto d’incommensurabilità si presta bene a usi metaforici di vario tipo, che non necessariamente lo banalizzano. Posso dire per esempio che la bellezza di un paesaggio delle Dolomiti è incommensurabile con gli eventi cui ha fatto da sfondo durante la Prima Guerra Mondiale. Posso anche farne un superlativo assoluto: quella donna è di una bellezza incommensurabile. A pensarci bene, sembrerebbe un concetto fatto a posta per l’arte. Le opere d’arte, certamente i cosiddetti capolavori, sono incommensurabili tra loro. Pochi proverebbero seriamente a stabilire se la Monna Lisa ha una qualità maggiore o minore delle Ninfee di Monet. C’è solo un’entità così sfacciata da ignorare ogni forma d’incommensurabilità: il mercato. Il cavallo di Cattelan viene venduto per 2 milioni di dollari, un piccolo olio di Giacomo Balla per 40mila euro, una BMW 750 Excelsa 120mila euro. Cifre razionali, commensurabili tra loro (non per nulla Marx considerava il denaro un equivalente universale). La domanda è semmai questa: le quotazioni di mercato sono l’unica alternativa rimasta al ritrarsi attuale della critica da una delle sue funzioni primarie che è quella di giudicare, ovvero paragonare delle opere non in base al loro valore di scambio?

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 81. Te lo sei perso? Abbonati!

*per la seconda parte de “Il giudizio è impossibile. Viva il giudizio” cliccare qui

2 Commenti

  1. Complimenti a Luca Bertolo per lo scritto interessante. Personalmente la penso così:
    non è possibile dare indicazioni stradali senza conoscere la meta da raggiungere. Allo stesso modo un’idea confusa e vaga delle finalità da perseguire impedisce a una collettività spaesata di individuare criteri solidi, seppure non oggettivi, per valutare le decisioni politiche, le scelte economiche, i comportamenti sociali e i fenomeni culturali. Una massa disorientata, che non percepisce distintamente il senso della propria esistenza, non è in grado di assegnare il giusto valore a nulla, tanto meno all’arte. Ogni definizione di valore non può prescindere dalla relazione con scopi e finalità. Il valore di un’opera d’arte non può che essere definito in maniera soggettiva, senza alcuna pretesa di universalità, ma esiste sempre in relazione a un fine. Come ogni atto dell’uomo sulla terra, la creazione artistica persegue uno scopo, che è ogni volta diverso a seconda delle intenzioni dell’artista, del contesto di fruizione dell’opera, della sensibilità del pubblico. Quanto più l’arte si avvicinerà all’obiettivo sulla base del quale la si valuta, tanto più avrà valore. Se, ad esempio, l’obiettivo è il compiacimento estetico, avrà maggiore valore l’opera più armonica nelle forme e nei colori. Se il fine è politico, avrà maggiore valore l’opera in grado di condizionare le opinioni del pubblico. Compito della critica è esplicitare i criteri di valutazione sulla base di chiare finalità e scopi precisi. Gli obiettivi, poi, non devono essere necessariamente condivisi da tutti. Per questo motivo esistono gusti differenti, certa arte piace e altra no. L’importante è che il pubblico capisca perché qualcosa incontra il suo gusto. Un’opera non può piacere solo perché qualcuno ha deciso così.

  2. in internet ormai opere musicali e visuali sono con-divise gratuitamente….è un nuovo modo di fare arte alternativo al vergognoso sistema attuale dell’arte. l’equazione valore monetario uguale qualità-valore artistico è falsa,ma gli addetti allo show business e le stars, dell’arte contemporanea non possono ammetterlo causa la perdita dei loro lucrosi guadagni.

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