14 maggio 2013

La figurazione è inevitabile?

 
Il Pecci di Prato fa un'interessante incursione nel vasto (e crescente) territorio della pittura. Non per dare conto dello stato delle cose, ma per rintracciarne le possibilità. Ciò che fa ancora usare colori, pennello e tela. Magari per rovesciarla, dipingendo sul retro, o per negarli tutti. Aprendo a qualcosa che sta tra «la potenza e l’impotenza del vedere». Ma l'operazione finisce per privilegiare il contesto a scapito dell'opera

di

(A sinistra) Tal R, The Old, 2010 colla di coniglio, pigmenti e pastello su tela Rabbit glue, pigment and (wax-) crayon on canvas 250 x 250 cm L’artista (a destra) Michael Bauer, Legion Picknick, 2009 olio su tela Oil on canvas 190 x 190 cm Norma Mangione Gallery, Torino foto di Ivan D’Alì
Difficile definire l’essenza della pittura contemporanea, in tempi così incerti da far sembrare la staticità del pennello sulla tela una condizione poco efficace per tradurre in immagini la complessità di un presente in vertiginosa evoluzione. Rispetto a chi  per esprimere il proprio pensiero sul mondo utilizza linguaggi come fotografia, video o Internet, la pittura appare quasi come un esercizio monastico, con regole e modalità che appartengono ad un tempo altro, scandito da gesti che ricordano le orazioni di un monaco. D’altra parte, complice la crisi economica che spinge i galleristi a proporre opere più vendibili e meno impegnative, la pittura sembra ripresentarsi sulla scena (internazionale, più che italiana) in maniera più articolata, anche se non priva di malcelate ambiguità. E forse sono proprio quelle ambiguità ad aver suggerito a Davide Ferri e Marco Bazzini la mostra “La figurazione inevitabile. Una scena della pittura oggi”, aperta fino all’8 luglio al Centro Pecci di Prato.
Matthias Weischer, Boudoir, 2010 olio su tela Oil on canvas 60 x 65 x 3 cm AmC Collezione Coppola foto di Ivan D’Alì
Chiariamo subito le premesse, esplicitate dai due curatori: non si tratta di un censimento, ma di un’indagine sulla «figurazione intesa come approdo irrinunciabile e al contempo problematico», legata ad «una linea della pittura attuale che rinvia ad una figurazione con precauzioni, a tratti anche analitica e metapittorica». Una rassegna a tesi, che avrebbe certamente guadagnato in chiarezza con un titolo formulato in modo interrogativo, tipo La figurazione è inevitabile? tale da suggerire non l’assunzione di uno statement, ma l’apertura di un dibattito su una questione non risolta, e che la mostra, rimasta ancorata ad una affermazione quasi dogmatica, non aiuta del tutto a sciogliere. Vediamo come, e perché. 
L’inizio è folgorante: le opere di Magritte e Paolini dialogano tra loro sul filo di un’impossibilità di pensare il mondo attraverso una rappresentazione affermativa, muovendosi dunque sugli interstizi tra realtà e immagine (Magritte) e storia dell’arte e tecnica (Paolini). Sono proprio loro a suggerire quel punto interrogativo, quell’ostacolo che li ha allontanati dal dolore esibito come condizione esistenziale di  Grunewald, Caravaggio e Bacon per intraprendere la strada del dubbio e della sospensione propria di Antonello. di Vermeer e di Morandi, e che molto giustamente Bazzini pone sul crinale tra «la potenza e l’impotenza del vedere». Purtroppo però nelle sale successive, forse troppo ampie per contenere una rassegna che avrebbe avuto bisogno di spazi più raccolti per suggerire (e guidare a) un approccio più meditativo, le opere dei diciotto artisti internazionali che appartengono ad una generazione nata dopo gli anni Sessanta rivelano una visione che privilegia il contesto rispetto all’opera in sé. 
Marco Neri, Giardini, 2010 tempera su carta Tempera on paper 25 elementi | elements, 56 x 77 cm l’uno | each Galleria Alfonso Artiaco, Napoli foto di Ivan D’Alì
Ogni sala è stata costruita su assonanze, certamente ben presenti nel pensiero dei curatori, ma spesso poco visibili, se non addirittura stridenti, allo sguardo del visitatore, espresse dall’affermazione di Ferri sulla possibilità della mostra «di essere letta più volte, perché i dipinti esposti possono essere combinati ogni volta in modo diverso», come se si potesse prescindere dalla disposizione spaziale proposta dal museo, che è sempre componente integrante della lettura della mostra da parte di un pubblico “avvertito”. 
Ho accolto l’invito, e ho costruito un percorso che predilige una pittura più mentale e meno rappresentata: Paolini e non Magritte, per intenderci. I dispositivi spiazzanti di Richard Aldrich e Luca Bertolo, i ritratti sospesi di Thomas Helbig, i paesaggi annegati nel colore di Mamma Anderson e Matthias Weischer, le nature morte ossessive di Pier Paolo Campanini, le architetture essenziali di Marco Neri e i rarefatti trompe l’oeil di Helene Appel: una scelta più che soddisfacente all’interno di una mostra forse non del tutto riuscita, ma senz’altro molto interessante come ipotesi di lettura della pittura del nostro tempo. 
E aggiungo un desiderio: sarebbe stato assai utile dedicare una sala ai disegni degli artisti, utilissimi strumenti per entrare nella parte più intima e immediata del loro pensiero.

1 commento

  1. >>>metà dell’articolo di Pratesi ci spiega i suoi pregiudizi sulla pratica pittorica, l’altra metà richiede alla disposizione espositiva della mostra il rigore di un’installazione. Non vede e non sa leggere (o non vuole leggere) opere di cui sembra incapace di restituirci una interpretazione formale convincente ed informata sugli sviluppi contemporanei di questo ambito artistico. #1 ennesimo caso di analfabetismo critico? #1 strategia per celare la sua assenza di gusto?

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