26 giugno 2012

La performance è viva. Viva la performance

 
Il nostro tempo riattualizza la performance. Che in realtà non è mai scomparsa dalla scena artistica. Linguaggio che annulla la mediazione con il pubblico, dissacrante, a volte ironico o sofferto, spesso scolpito nella carne viva dell'artista, conquista oggi nuovi adepti. Da New York a Art Basel e al Maxxi. Anche in virtù delle sue radici storiche che oggi ci restituiscono una solida tradizione. Che vi proponiamo in questo excursus [di Paola Ugolini]

di

Zurigo, Svizzera, 9 aprile 1919, sono passati quasi due anni da quando la Dada Gallery è stata chiusa per debiti. La grande guerra è finita da un anno e molti degli artisti esiliati nella neutrale Svizzera stanno lasciando il Paese per ritornare nelle loro città di origine ferite a morte dai bombardamenti. In questo clima un po’ cupo Tristan Tzara, l’indiscusso leader e capo spirituale del movimento Dada, organizza un’ultima grandiosa performance prima di ritornare a Parigi. Peccato non aver potuto partecipare a quella serata memorabile dal titolo, che già di per sé era tutto un programma: “Il più grande-che ci sia mai stato-DADA-Show” (Greatest-Ever-DADA-Show), con scenografie di Hans Arp e Hans Richter, le maschere teatrali disegnate dall’architetto e pittore Marcel Janco, le musiche composte per l’occasione da Hans Heusser, le coreografie dalla ballerina Suzanne Perottet, specializzata in danza contemporanea, e Sophie Tauber moglie di Arp…insomma il top dell’avanguardia del momento.

Le cronache raccontano che la serata si svolse nel più puro stile DADA, gli artisti sul palco a presentare poesie sonore, discorsi incomprensibili ai più, balletti dai movimenti così all’avanguardia da sembrare goffi e una platea rumorosa e inferocita con cui gli artisti finirono per insultarsi pesantemente. “Spazzatura” pare sia stata la parola più utilizzata dagli spettatori nel commentare le azioni performative di Tzara, si racconta che i più facinorosi fra il pubblico avessero addirittura divelto la balaustra della galleria irrompendo sul palco per distruggere più o meno tutto. Tzara, felice, commentò che la “cretinizzazione del pubblico” era stata acquisita e che, grazie alle provocazioni degli artisti, gli spettatori avevano finalmente, seppur momentaneamente, frantumato quelle invisibili barriere della buona educazione per sperimentare l’incredibile commozione e potenza del nuovo. Non dimentichiamo la data: 1919, il mondo borghese, che frequentava i circoli intellettuali e i teatri, era davvero borghese, totalmente irrigidito in delle convenzioni formali ancora ottocentesche, urlare, insultare e brandire oggetti contundenti fu certamente un atto collettivo fortemente liberatorio.

Questi gli inizi turbolenti della “performance” come pratica artistica volta non solo a modificare la nostra percezione sensoriale, ma anche a svelare i nostri meccanismi inconsci. La Performance art inizia ad essere identificata come vero e proprio movimento artistico negli anni Sessanta, con il lavoro dei protagonisti della corrente artistica Fluxus: Allan Kaprow, che coniò il termine happening, Hermann Nitsch, Wolf Vostell, Charlotte Moorman e Nam June Paik che ibridizzò, creando con un linguaggio davvero nuovo, l’azione performativa con la video-arte. Non dobbiamo dimenticarci che già agli inizi degli anni Cinquanta in Giappone, Jiro Yoshihara e Shozo Shimamoto, fondatori del gruppo artistico Gutai, inneggiando all’abbandono del pennello, promuovevano un’arte “nuova” legata alla performance e all’happening, cioè ad un’arte capace di rompere con i canoni classici e con il museo come contenitore previlegiato per rivolgersi direttamente alla gente con interventi spesso duri e provocatori. Le grandi tele di Shimamoto nascono esclusivamente da forsennate e vitalistiche azioni performative durante le quali l’artista lanciava sulla tela le bottiglie di colore con un risultato estetico, informale, molto vicino “all’action painting” dell’americano Jackson Pollock.

Certamente gli anni Sessanta e Settanta, con la protesta giovanile, la politica militante, il femminismo e il desiderio di rompere definitivamente con un mondo ormai obsoleto delle convenzioni borghesi è stato un terreno molto fertile per lo sviluppo dell’arte performativa. Pietre miliari della storia dell’arte contemporanea, le azioni, al limite della sopportazione fisica e psichica, della coppia di artisti Marina Abramovic e Ulay che nel 1976 hanno incominciato il loro sodalizio artistico-sentimentale conclusosi 12 anni dopo con una performance sul concetto di incontro e successivo abbandono. Una camminata lungo il perimetro della Grande Muraglia Cinese: Marina decide di partire dal lato orientale della Muraglia, sulle sponde del Mar Giallo, mentre Ulay dalla periferia sud occidentale del Deserto di Gobi. Dopo aver percorso in novanta giorni duemilacinquecento chilometri a piedi i due artisti si sono incontrati a metà percorso per dirsi addio. Nel 1975 con la performance “Art must be beautiful”, in cui la Abramovic si pettina i capelli con violenza usando un pettine di ferro che ad un certo punto comincia a ferirla e ripetendo come un mantra ad ogni colpo di pettine “Art must be beautiful”, l’artista da uno scossone all’omologazione estetica e alla violenza del dover essere “belli”.

In questo periodo il corpo diventa strumento artistico e la sessualità femminile con i suoi misteri diventa l’arma di battaglia di molte performers donne che trovano in questa pratica, poco utilizzata in modo sistematico fino a quel momento dai loro colleghi maschi, un’arma potente di protesta sociale. La Body Art con le azioni catartiche e dolorose di Gina Pane, le performance fisico-pittoriche di Carolee Shneeman, le azioni di Valie Export e le provocazioni di Adrien Piper sono state le imprescindibili basi di una pratica artistica effimera, potente e disturbante come solo può esserlo la performance.

In questo momento di crisi economica e di incertezza noto un ritorno ad alcune pratiche artistiche che erano state abbandonate dal mass market degli ultimi rutilanti vent’anni, il collage, la pittura, il disegno e, soprattutto, la performance. A New York sono rimasta colpita da Cheryl Pope, giovanissima artista americana, che in uno spazio non-profit molto alternativo di Queens ha realizzato una performance sul dolore, di grande impatto visivo e di incredibile intensità fisica ed emotiva. A Roma, lo spazio esterno del Museo MAXXI, è stato occupato per tre giorni dalle performances del progetto “Acting out” curato da Anne Palopoli. Capienza massima meno uno, è il titolo dell’azione di Marzia Migliora che ha radunato mille persone nella hall del Museo per una riflessione collettiva e ricca di pathos sulla parola “occupare” che, dopo un lungo oblio, è tornata anch’essa di gran moda nell’ultimo anno. Alex Cecchetti con H Coreografia per nudi che si nascondono ha creato con un gruppo di ballerini nudi e mimetizzati nelle pieghe architettoniche del museo delle suggestive visioni di una coreografia che vuole sfuggire alla rappresentazione e restare celata allo spettatore. Bruna Esposito ha concluso la rassegna con la performance Paesaggi in cui una vecchia vespa, di quelle usate dai fiorai ambulanti, piena di piante e di fiori è stata guidata dall’artista bendata aiutata solo dagli spettatori che fornivano indicazioni sul percorso, mentre una donna scalza e anch’essa bendata distribuiva come in una sorta di gioco della mosca cieca dei fiori di carta recitando a bassa voce una poesia.

“Last but not least”, ad Art Basel l’unica opera d’arte non in vendita era “esposta” nello stand della galleria Sean Kelly di New York, che ha riproposto la famosa performance del 1977 in cui Marina Abramovic e Ulay sono rimasti per ore in piedi, nudi e privi di qualsiasi emozione, ai lati della porta di ingresso di una galleria obbligando le persone ad  insinuarsi fra le loro nudità per poter entrare ed uscire. Gli artisti a Basilea sono stati sostituiti da due bravi performer che non hanno mai avuto un attimo di cedimento ma, questa volta, si poteva scegliere se partecipare alla performance attraversando lo stretto spazio fra i due corpi nudi o se entrare nello stand da una porta laterale, grande ressa di collezionisti spiazzati davanti alla nudità umana, indifesa e disarmata e pochi hanno avuto il coraggio di partecipare. Siamo nel XXI secolo, ma il nudo e l’intimità ancora ci imbarazzano e ci intimidiscono.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui