08 giugno 2021

Le conseguenze dell’IVA nell’arte (e perché non tutti la comprendono)

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Come superare l'annoso dilemma dell'IVA al 22% applicata alle opere d'arte: l'opinione di Francesco Cascino e Michele Trimarchi

Francis Bacon, Tre studi di Lucian Freud

Riemerge con una certa regolarità la questione dell’IVA sugli scambi delle opere d’arte. Il suo ricorrere rischia di assoggettarne le dinamiche a una lettura viscerale che attribuisce un valore piuttosto simbolico alle dimensioni monetarie; allo stesso modo, per quanto legittime, le rivendicazioni di parte andrebbero filtrate all’interno di una cornice strategica, proprio l’elemento di fondo che manca in un Paese che da troppo tempo si è adagiato nel limbo dell’emergenza permanente. Mentre la società si affretta a costruire un futuro che sembra molto interessante, il sistema culturale italiano indulge in una temperie rituale, quasi messianica, che ne segna l’atrofia sempre meno reversibile.

Le vendite di opere d’arte prevedono un’Imposta sul Valore Aggiunto del 22%, l’aliquota ordinaria che, relativamente all’arte, risulta una delle più elevate al mondo. Così, con buona pace di una vulgata condivisa che tuttora identifica l’Italia come il Paese dell’arte e della cultura, le istituzioni sembrano fare di tutto per smantellare il nostro potenziale di attrazione, che non riguarda soltanto il turismo di massa (e quello che ne ridisegnerà le tracce dopo la clausura) ma soprattutto i mercati dell’arte, verso i quali migliaia di possibili investitori sarebbero ben felici di acquistare in Italia. Gli stessi italiani spesso comprano opere d’arte italiane in aste battute all’estero e sui mercati mondiali, proprio per questo elemento demotivante.

Il mercato ci sarebbe, dunque, fertile e dinamico. Lo blocca l’aliquota dell’IVA, il regime della notifica che ferma gli acquisti fino a 180 giorni e rende pertanto impossibile valutare un acquisto ex ante, e l’atteggiamento tuttora punitivo nei confronti di uno strato sociale attivo e cosmopolita cui la lettura quacchera degli italiani attribuisce colpe irredimibili, rivelando una sottocultura tardo-agricola imbevuta di moralismi fuori luogo. La questione è dunque delicata, e richiede un salto culturale, una visione non pregiudiziale, una chiara conoscenza e valutazione dei profili tecnici, e soprattutto un orientamento strategico: quanto vale l’arte? Che impatto può generare sull’economia e sulla società?

Facciamo un breve passo indietro. A fine maggio 2021 l’associazione nazionale delle gallerie d’arte italiane chiede, con una lettera a Franceschini, di “salvare il settore” e riflettere insieme su un’aliquota più giusta ed equa, in linea con il mondo evoluto, altrimenti tutto il comparto sarebbe “a rischio collasso”, data anche la situazione pandemica. Lo fa senza aggiungere che un’IVA al 10% sull’arte porterebbe enormi benefici alle casse dello Stato, al Paese, alle imprese, ai collezionisti, i terzi o quarti al mondo sia per spesa, sia per qualità, e soprattutto attiverebbe e consoliderebbe una cascata di benefici per un indotto di elevato spessore: si tratta di un comparto labour intensive che coinvolge produttori di servizi materiali (corniciai, fabbri, falegnami, trasportatori, assicuratori, allestitori, comunicatori, etc.), così come produttori di contenuto (esperti, tecnici, divulgatori, interpreti critici, etc.), e si colloca in quell’alveo di attività professionali di competenza elevata che affronta quotidianamente percorsi di upskilling e reskilling (che proprio il PNRR pone tra i pilastri della sua prima missione).

Non è, come qualcuno si ostina a ritenere, un’attività riservata a pochi e per questa via elitaria. Al contrario, la circolazione delle opere d’arte arricchisce le mostre di caratura internazionale di cui beneficia tutta l’area interessata, incoraggia gli artisti creativi a proseguire nel proprio percorso di ricerca, arricchisce la qualità della vita urbana grazie alle imprese che investono in progetti di sviluppo territoriale costruiti intorno all’arte pubblica, contribuisce alla rigenerazione urbana, che può suonare romantica ma produce forti effetti sociali ed economici, dal rialzo dei valori immobiliari alla riduzione del micro-crimine urbano, dalla lotta al degrado territoriale alla crescita del capitale sociale, fino all’attrazione di viaggiatori in cerca di esperienza e condivisione.

Ci occupiamo di questi dilemmi da molto tempo. Con l’Associazione ARTEPRIMA mettiamo a fuoco dal 2010 le tematiche cruciali dell’inclusione sociale, come beneficio delicato e importante delle strategie e delle politiche incentrate sull’arte nel tessuto urbano e sociale. Contrariamente a quanto si può credere, non si tratta di aree riservate o minoritarie: la presenza pervasiva dell’arte nei territori e la sua capacità di dialogare con la società ne fanno uno snodo incisivo di crescita per l’intera comunità urbana. Da questa prospettiva, incoraggiare con adeguati incentivi fiscali e tributari l’innervamento dell’arte nelle pratiche di condivisione genera benefici per tutti, fa emergere pensiero critico e coesione sociale, diffonde la ricchezza.

Una manovra strutturale, discussa con gli esperti e non solo con i teorici, riporterebbe enormi capitali in Italia e, paradossalmente, un gettito fiscale molto più alto di quello attuale, considerando che molti collezionisti finora comprano all’estero e restano ‘invisibili’ con chiaro limite del possibile gettito tributario. Rimodulare l’IVA, con un’aliquota al 10% se non al 4% (come i libri in Italia, come le opere d’arte in Danimarca) potrebbe attivare un indotto esteso, ridisegnare la mappa dell’arte negli spazi urbani, incoraggiare gli acquisti di nuove opere d’arte e anche per questa via l’intensità della ricerca e l’incisività delle intuizioni creative di molti artisti, tanto consolidati quanto emergenti. Al calo deciso dell’IVA si dovrebbe associare un ventaglio di incentivi volto ad accrescere l’accessibilità materiale e cognitiva (altro tema di fondo del PNRR), e a diffondere più equilibratamente l’offerta d’arte nei territori, superando la concentrazione in aree centrali e in luoghi quasi sacrali.

È tempo di cambiare la percezione prevalente dell’arte, che non è un bene di lusso ma un bene pubblico di diffusione e crescita del sapere e dell’immaginazione, collettiva e individuale. Le gallerie vanno salvate, certo. Siamo del tutto d’accordo, anche perché molte di loro sono le uniche scuole di formazione per collezionisti e artisti, avendo lo Stato rinunciato a promuovere l’arte di ricerca; spesso infatti diventano uno dei contesti in cui nascono laboratori di conoscenza e scambio diretto e indiretto di strumentazione emotiva sia per i singoli, sia per le imprese, sia per i territori. Questo motiva gli investitori a visitare l’Italia, in cerca di nuovi linguaggi e nuove visioni. Il Colosseo non basta più, per una società sempre più complessa e sofisticata, che manifesta un interesse crescente per l’esplorazione e la scoperta superando del tutto la logica del viaggiatore-collezionista che vuole solo testimoniare la propria presenza al cospetto di opere e monumenti iconici ma molto poco dialogici. Questa lettura delle cose è arretrata di molti decenni.

Un nuovo regime fiscale e tributario degli scambi di opere d’arte può rappresentare l’ennesimo paradosso virtuoso che il sistema culturale considera ancora con sospetto e diffidenza: fa emergere acquisti che altrimenti resterebbero occulti, privando la società di un dialogo culturale sempre più importante, e sottraendo all’erario un enorme gettito; ridefinisce la mappa dell’arte nei territori italiani e incoraggia la condivisione e per questa via l’inclusione sociale, la crescita del pensiero critico, la ricerca artistica.

Infine, ma non per ultimo, restituisce all’Italia quella capacità strategica che lo storico Braudel ha definito ‘le model Italien’ riferendosi a quando, tra la metà del quindicesimo e la metà del diciassettesimo secolo, artisti, letterati, banchieri, imprenditori e strateghi hanno saputo innervare la visione culturale italiana in tutta Europa.

Francesco Cascino è un Art Consultant, ARThinker e Cultural Project Curator
Michele Trimarchi è un Economista e Progettista di strategie culturali

1 commento

  1. Manca un’analisi sociologica e antropologica all’ottimo articolo. Mi riferisco al “mondo dell’arte” italiano tutto asservito politicamente e molto ruffiano dove tutti si amano e si lodano, dove tutti sono stupidamente moralisti e etici. Potrei aggiungere altro ma questo basta per far capire che uno come Franceschini, ma anche i politici in genere, si approfittano di questa massa di popolo strisciante e in definitiva fanno bene.

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