05 luglio 2010

LUMIÈRE

 
di gianni romano

Il 1997 è l’anno in cui il Turner Prize per la prima volta presenta quattro finaliste donne; nel 1999 alla Biennale di Venezia cinque artiste vincono il Leone d’Oro; l’8 marzo del 2010 (ecco... una data simbolica) Kathryn Bigelow vince la 82esima edizione degli Oscar, prima volta per una donna e per di più con un piccolo film sulla guerra in Iraq...

di

Il film che contendeva
l’Oscar a Kathryn Bigelow
era Avatar, film sindacalista che non è piaciuto a nessuno ma che
tutti hanno visto e al quale l’industria deve molto, visto che è costato quasi
mezzo miliardo ed entra al top delle classifiche degli incassi, facendone
guadagnare due e mezzo. Strano (è strano?) che i quotidiani italiani, ormai
vittime della “corona connection” (o sindrome dell’inciucio
) si siano occupati quasi
esclusivamente di informarci del fatto che la famiglia Cameron (“la bella
Kathryn Bigelow è stata sposata ben 24 mesi con James
”) rischiava di fare man bassa la
notte degli Oscar. Nessun rimando a un lavoro silenzioso e dalle lunghe
produzioni che ricordano Terrence Malick
, né a titoli che sono entrati da tempo nell’elenco
dei cult movie (Blue Steel
, 1989; Point Break, 1991; Strange Days, 1995).
Risultato: Hurt
Locker
ha vinto
sei Oscar e (nessuno lo dice, ma ha vinto anche sei Bafta, l’Oscar inglese)… chapeau
, la giuria premia un film per
niente spettacolare, una storia delicata su un gruppo di sminatori
dell’esercito statunitense in missione in Iraq. Il film è l’ultima storia che
Hollywood racconta sui disastri di questa guerra, a cominciare dall’ultimo e
dissacrante L’uomo che fissa le capre
(Grant Heslov, 2009) e passando per Jarhead (Sam Mendes, 2005), Redacted (De Palma, 2007) e il magnifico Leoni
per agnelli
(Robert
Redford
, 2007).
Kathryn Bigelow - The Hurt Locker - Usa 2008
Kathryn Ann Bigelow è
una delle tante menti del mondo dell’arte che ha preso un’altra strada. Studia
arte contemporanea a New York negli anni ‘70, in tempo per vedere Andy
Warhol
allo
Studio 54, in tempo per conoscere Art and Language, gruppo inglese
fondamentalista dell’arte concettuale con il quale collabora per due anni.
Dicono che quando non è impegnata in qualche produzione le piaccia dipingere,
però i quadri li fa vedere solo agli amici, quindi niente studio visit
.
Se fossi un tycoon
della 20th Century Fox, Avatar
l’avrei fatto girare a lei. Bigelow crea delle
sceneggiature memorabili accompagnate da immagini che rafforzano la narrazione
con coerenza e poesia, sorpresa e incanto. Hurt Locker
racconta di un gruppo di uomini
impegnati a evitare tragedie per le strade delle città irachene. Essendo
americani devono combattere la diffidenza della popolazione civile e la
pazienza dei propri compagni, per i quali le operazioni di sminamento sono
quasi un intralcio alle “vere” azioni di guerra. Gli artificieri affrontano
pericoli in continuazione, con la consapevolezza di fare un lavoro impossibile,
raccontano delle volte che hanno visto la morte avvicinarsi o di compagni che
non lo possono più raccontare; ogni volta che partono per una missione lo fanno
sapendo che potrebbe essere l’ultima volta che si salutano.

Kathryn Bigelow - The Hurt Locker - Usa 2008
Come accade spesso nei
film di Bigelow, il gruppo fa storia a sé, una microcomunità che si droga con
questa routine fatta di paura e senso di disciplina. Sebbene gli attori non
facciano mai discorsi sulle ragioni della guerra o sulla politica statunitense,
la domanda “che ci facciamo qui?
” incombe e accompagna tutto il film come una didascalia.
Tutta questa ondata di film sull’Iraq sembra la risposta di autori che vogliono
cancellare la cattiva coscienza di anni d’inganni da parte dell’amministrazione
Bush (le “verità” di Colin Powell ) e di notizie CNN pilotate dall’esercito,
tutto ciò che dalla Guerra del Golfo in poi (come racconta David Levi-Strauss)
ha contribuito a far sparire l’immaginario bellico dai telegiornali.

Hollywood sembra
essersi fatta carico di questa incombenza, ricostruire la verità (come cerca di
fare Leoni per agnelli
), le immagini-verità (Redacted) o piccole storie personali all’interno di un
quadro più grande. Comunque tanto rispetto a un cinema italiano incapace di
parlare della propria condizione sociale (ci voleva un bergamasco-svedese per
girare Videocracy
?),
arroccato su modelli facili-facili di Bildungsroman
all’acqua di rose con coppie o
gruppi di persone che non riflettono né ci dicono nulla del nostro paese.

articoli correlati
Bigelow
e la moda? L’accostamento di Aldo Premoli

gianni romano
critico d’arte ed editore di
postmediabooks


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper
n. 66. Te l’eri perso?
Abbonati!

[exibart]

1 commento

  1. bello questo focus sul film. Sono d’accordo, anche su una certa aria stantia che si respira negli studio visit di molti artisti. Ormai artigiani di un certo stereotipo di arte contemporanea. Maghi e burocrati della post produzione.

    In italia abbiamo un problema con la nostra Natura. C’è chi la segue in modo banale e volgare. E chi prova a bypassarla volendo diventare quello che non è (complessi di inferiorità sull’italia). Il punto sta nell’affrontare la propria natura per poi superarla. I film italiani raramente fanno questo, un esempio positivo può venire da alcuni film di Paolo Sorrentino come Le conseguenze dell’amore e L’amico di famiglia. In questo caso si affronta coraggiosamente l’italianità e la si supera. Nel mondo dell’arte contemporanea italiana invece troviamo Milovan Farronato o altri come lui, che non riescono (comprensibilmente) ad accettare l’italianità e cercano di aspirare ad uno standard internazionale che li rende copie sbiadite degli originali.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui