12 ottobre 2021

Per una politica del territorio, da inclusiva a includente

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Ovvio che la cultura rappresenti uno degli strumenti a disposizione per poter creare un impatto positivo sul territorio, ma ovvio che da sola non basta. E allora? Un prospetto tenendo conto del "reale"

Gli individui che in Italia vivono in condizioni di povertà assoluta sono oltre 5,6 milioni, vale a dire il 10% circa della popolazione.
Questi sono i dati pubblicati dall’ISTAT nel giugno 2021 e riferiti alle condizioni di povertà durante il 2020.
Siamo, insomma, un Paese in cui, su dieci persone, una di queste ha difficoltà ad acquistare i beni e i servizi inclusi in un “paniere minimo di spesa”.
Una condizione che deve far riflettere, non solo in termini sociali, ma anche in termini di sviluppo del territorio nel suo complesso. Con percentuali così elevate, infatti, non è solo il singolo in povertà a risentire della propria condizione, ma l’intera collettività: si riducono i consumi, si riduce la ricchezza totale, si incrementano i costi sociali, i costi sanitari, ecc.
Condizione che è ben nota da tempo e che nonostante tutti gli sforzi (il nostro terzo settore al riguardo è veramente una punta di diamante), ancora oggi rappresenta una sfida essenziale per il nostro sistema democratico.
Perché a rendere più urgente la tematica è anche la progressiva erosione di quel capitale di relazioni sociali che sono tra le infrastrutture portanti del concetto di “comunità”: sempre secondo l’Istat, infatti, gli indicatori che misurano la qualità delle relazioni sociali degli individui hanno registrato, negli ultimi anni, un trend al ribasso. Rispetto ai dati 2016, infatti, quelli del 2020 evidenziano che si sono ridotte le persone che affermano di essere molto soddisfatte delle relazioni amicali (dal 23,6 al 22,5%), che sono molto soddisfatte per le relazioni familiari (dal 33,2 al 33,1%), così come sono diminuite le persone che affermano di avere “persone su cui contare” (dall’81,7 all’81,6%).

Il fallimento delle politiche di “coinvolgimento”

Questi dati riflettono dunque sicuramente un fallimento che riguarda noi tutti, e, in misura ancor maggiore, un fallimento della “politica” che, a tutti i livelli di governo del territorio, non è stata in grado di proporre nuove modalità di coinvolgimento della cittadinanza.
Concentrati sulle dimensioni prettamente economiche, infatti, i nostri decisori pubblici hanno tralasciato quegli elementi che concorrono a rendere tali misure più efficaci, e, nel medio periodo, meno impellenti.
Basta approfondire l’ultimo dato citato per comprenderne la portata: in Italia, le persone che dichiarano di “non avere persone su cui poter contare” sono all’incirca, il 18,4% del campione rappresentativo. Su dieci persone, quindi, circa 2 sono “sole”. Pur volendo ipotizzare che a dichiararsi “sola” sia anche la persona in “povertà”, ce n’è dunque un’altra, nel nostro campione di dieci persone, che in caso di evento negativo, non potrebbe contare su “nessuno”.
Ecco che, pensando anche soltanto ai bisogni primari, la qualità delle relazioni sociali diviene un elemento che riflette anche un ragionamento economico-spicciolo: se a perdere “tutto” è una persona con amici o parenti, il costo sociale sarà sicuramente più basso rispetto a quello necessario per poter aiutare una persona completamente sola (si pensi al posto letto, si pensi al cibo, e al mantenimento delle organizzazioni necessarie a poter erogare tali beni di prima necessità).
Riflettendo esclusivamente sulle condizioni economiche, e tralasciando l’insieme di dimensioni che invece concorrono a stabilire il benessere di una società, la nostra classe dirigente ha pertanto agito in “emergenza”, senza tuttavia avviare un percorso di crescita di medio periodo.

Casa Cultura dei Bambini, a Copenhagen

Basta la cultura?

Questa crescita di medio periodo non può dunque che coinvolgere anche gli elementi di natura culturale, e non solo quelli inerenti la cultura formale, ma anche e soprattutto la possibilità di creare le condizioni per costruire una comunità più coesa.
Oggi, la cultura nei territori (grandi e piccoli) è ancora percepita come elemento di “consenso”, come residuo di bilancio da investire in eventi più o meno ben riusciti.
Così facendo, tuttavia, viene disperso uno dei maggiori effetti che la cultura può innescare in un territorio: la creazione di comunità, l’estensione delle reti sociali, l’incremento del sentimento identitario, la costruzione di “opportunità” indirette per le persone e, di conseguenza, per il territorio nel suo complesso.
E questo, a ben vedere, inficia anche i risultati ottenibili anche “in termini di consenso” stesso.
È ovvio che la cultura, da sola, non potrà salvare le persone dalla soglia di povertà. Così come è ovvio che la cultura, da sola, non potrà migliorare il livello di benessere percepito dai cittadini in termini di relazioni sociali.
È tuttavia altrettanto ovvio che la cultura rappresenti uno degli strumenti a disposizione dei decisori pubblici attraverso i quali poter creare un impatto positivo sul territorio.
Impatto che si può ottenere con azioni semplici: creare le condizioni di dialogo e di mutua conoscenza tra le persone che vivono nello stesso territorio, avviare progetti che permettano ai “figli” di crescere in contesti eterogenei, insegnando loro il significato della cooperazione, estendendo le reti sociali oltre il proprio “parco”, e includendo anche bambini di differenti estrazioni sociali.

Creare percorsi di sostegno culturale

Creare percorsi che favoriscano il “mutuo sostegno”, e non in una chiave buonista della società, dove il concetto di “altro” è ovattato e piacevole, ma in una chiave concreta, dove l’altro è un essere umano con i propri difetti di cui tener conto e talenti da valorizzare.
Creare anche occasioni di scontro, in cui si educano i cittadini a manifestare il proprio dissenso, e rivendicare le proprie differenze di vedute.
Costruire quel concetto di comunità che adesso abbiamo demandato alle scuole, ai servizi sociali, ai centri di collocamento e agli ospedali, pur sapendo che ormai i genitori cambiano casa pur di mandare i figli in una scuola “rinomata”, i servizi sociali e gli ospedali agiscono in condizioni di emergenza, e i centri di collocamento agiscono soltanto sulla dimensione lavorativa degli individui.
Non tener conto del reale potere che la cultura può esercitare nei processi di costruzione della comunità significa “sprecare” risorse pubbliche e quindi “costi per la collettività”. Significa, in fondo, pensare che questa cosa che chiamiamo “cultura”, e che da millenni concorre a decidere le sorti di intere popolazioni, si sia evoluta al punto da divenire, banalmente, un concerto di una band di serie C negli eventi di settembre.
Sembra un po’ poco come ideale di civiltà.

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