17 luglio 2008

RE-INIZIALIZZAZIONE E CULTURA DA COLLEZIONISTI

 
di christian caliandro

Questa è un'epoca senza eroi ribelli e ammirevolmente autodistruttivi. Dove tutto è vintage e il revival è lo specchio di una generazione che, incapace di proiettarsi dinamicamente nel futuro, si rifugia in un passato. Sistematicamente idealizzato...

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Il ponte di navigazione. Lo chiamavano “centro nevralgico”. Lucido, luminoso, e morto. Quelle ruote non gireranno mai più. Quel telegrafo non trasmetterà più ordini alla sala motori. Quello schermo radar resterà sempre scuro (Richard Matheson, Appuntamento nel Tempo, 1975)

I’m tired… I’m tired of the future (Agatha in Minority Report, Steven Spielberg, 2002)

Nel marzo 2007, Iggy Pop e gli Stooges hanno pubblicato un nuovo disco. Come pensate che suonasse? Esattamente come negli anni ‘70, soltanto con una ripulitura di troppo.
È un nuovo tipo di senilità, che di senile -e di quella saggezza che dovrebbe essere complemento della vecchiaia- non ha più niente. È materialmente possibile figurarsi questa schiera di produttori e ingegneri del suono intenti per mesi a riprodurre il sound sporco dei primi Stooges, in origine dettato dall’inesperienza coniugata con l’estrema povertà dei mezzi di registrazione; un po’ come accadeva per i Velvet Underground. Una nuova sporcizia, dunque, elaborata e costruita a tavolino. Un vero ossimoro.
Re-inizializzazione è la parola chiave della nostra epoca. Non c’è più nessuna svolta, nessuno stadio progressivo, nessuna successione degli eventi. Ogni momento potenzialmente storico ricomincia daccapo, senza fare tesoro dell’esperienza precedente (almeno nel senso tradizionale): per il semplice fatto che un’esperienza precedente, tecnicamente, non esiste più. Lo sviluppo avviene re-inizializzando continuamente le premesse. E, di fronte all’invasione degli ultracorpi musicali, capita che un gruppo di vecchietti si rimetta insieme per fare, né più né meno, quello che faceva quarant’anni prima.
Sempre all’inizio di quest’anno, i Black Mountain, band neo-psichedelica, hanno pubblicato il loro secondo disco: nonostante il titolo In the Future -o proprio per quello-, la loro musica si presenta come la giustapposizione dei due opposti ipotetici della musica anni ‘70, i Led Zeppelin e i Pink Floyd. Né più, né meno.
È questa la “cultura da collezionisti”: nonostante essa sia sempre esistita, nell’ultimo decennio ha finito per colonizzare ogni branca della produzione artistica, da quella visiva a quella letteraria, da quella musicale a quella cinematografica, fino a zone apparentemente insospettabili come il design e la modellistica. Ogni prodotto culturale funziona esattamente come Factory Girl, il tanto vituperato bio-pic di Edie Sedgewick (George Hickenlooper, 2007): un’istantanea perfettamente curata e leccata, ma anche congelata nella sua stessa patina glamour. In una parola, morta.
Copertina di The Stooges - The Weirdness - 2007
Questa descrizione sembra attagliarsi virtualmente a ogni oggetto che venga fuori dalla testa dei creativi di oggi. Non è detto che sia per forza una maledizione: certo è che, per fruire correttamente queste opere, si rende necessaria una mappa mentale estremamente ricca ed elaborata. Non ci troviamo infatti già più nel territorio degli sporadici riferimenti o delle citazioni compiaciute, ma in quello dell’editing e, appunto, del collezionismo.
Come affermava Walter Benjamin nei Passage, “scrivere storia significa citare storia” [1]. Il vero problema è che la nostalgia e la mania del revival non sono proprio le caratteristiche di una generazione proiettata dinamicamente verso il futuro. Semmai è vero il contrario: a livello sia individuale che sociale, esse corrispondono infatti a uno sguardo rivolto a un passato sistematicamente e pervicacemente idealizzato.
Insomma, la considerazione storica di un determinato periodo non corrisponde tanto a un’effettiva necessità di comprensione, quanto a un’ennesima fuga dalla realtà -come peraltro sono il fantasy e i supereroi dei fumetti, due generi non a caso particolarmente visitati dal cinema degli ultimi anni-, e dalla propria condizione depressa. Come scrive Fredric Jameson, “possiamo sicuramente avanzare l’ipotesi che sia la suprema irrappresentabilità del divino a fornire al testo mistico la sua vocazione fondamentale e a giustificare l’allegoria come estrema struttura del linguaggio. È appunto questa dimensione allegorica che manca nella fantasy moderna, il cui immaginario medievale sembra strutturato soprattutto attorno all’onnipresenza della magia… In realtà la magia è la componente più problematica dello “sword and sorcery”, dal momento che non è difficile capire che la battaglia con armi d’altri tempi è una regressione all’era pretecnologica e un tentativo di ricreare lo scontro corpo a corpo con individui” [2].
Questo il quadro, per così dire, “clinico”. Se poi vogliamo avvicinarci un po’ di più agli oggetti in questione, appare chiaro che essi sono costruiti a partire da un punto di vista che ha molto a che fare con quella che potremmo definire iPodizzazione culturale [3]. La disponibilità digitale ha come primo effetto il livellamento, anche temporale, degli oggetti archiviati: in genere, l’anno e il periodo di riferimento scompaiono dalla prospettiva, perché ininfluenti; al massimo, laddove vengano ripescati o riconsiderati, quella canzone o quel film non sono più del 1971 o del 1986, ma appartengono ormai alle categorie mentali del “1971”, del “1986”.
I Black Mountain in concerto
Gli elementi che compongono la proverbiale tavolozza dell’artista contemporaneo vengono perciò estratti dal continuum originale e affidati a un lavoro di riuso e di “riqualificazione”, esattamente come succede agli spazi di archeologia industriale o ai quartieri degradati delle metropoli.
Inoltre, la creatività migliore ha sempre trovato nei limiti tecnologici della propria epoca il proprio alleato naturale: la necessità, si sa, aguzza l’ingegno, e la volontà di superare il confine della propria arte è tanto più forte e impellente quanto questo confine risulta chiaro, definibile e oggettivo. Questa, in definitiva, è la natura ultima del caro vecchio progressismo [4].
Che ne è, all’interno di questo processo iperspecializzato e fondamentalmente disumanizzato -detto, ancora una volta, senza intenti moralistici o declamatori-, delle care vecchie culture alternative e anti-mainstream? Più niente, kaputt. Questa è un’epoca senza eroi ribelli e ammirevolmente autodistruttivi.

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christian caliandro

[1] W. Benjamin, I “passages” di Parigi, in Opere complete, vol. IX, Einaudi, Torino 2000, p. 535.
[2] F. Jameson, Il grande scisma, in Il desiderio chiamato Utopia, Feltrinelli, Milano 2007, p. 91.
[3] Cfr. Oltre la storia! (…non mi sento tanto bene), in Pesce Khete (you’ve caught me in a bad mood) [cat.], The Flat, Milano 2008.
[4] Cfr. J. Lanier cit. in S. Malins, Gary Numan – The Pleasure Principle, nota di copertina, Beggars Banquet 1979.


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 50. Te l’eri perso? Abbonati!

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