26 novembre 2012

Un enigma di nome percezione

 
Una recente antologia di scritti benjaminiani riflette sui media percettivi. È cambiato qualcosa da Aristotele ad oggi? Gli autori dei dipinti rupestri vedevano la grotta Chauvet come noi vediamo il pc? E se la percezione fosse innervata dai media più o meno artificiali?

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«Se le impressioni visive dell’uomo non siano determinate solo da costanti naturali, ma anche da variabili storiche: questa è una delle domande più all’avanguardia della ricerca partendo dalla quale ogni centimetro di risposta è difficile da conquistare». Così scriveva Benjamin nel 1939, a un anno dalla morte, e hanno fatto bene i curatori della prima e ottima antologia di scritti benjaminiani sui media (Walter Benjamin, Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Einaudi, Torino 2012, pp. 429, € 25) a cominciare la loro introduzione generale al libro con queste parole. La nostra percezione (non soltanto visiva) è e resta un grande enigma, nonostante le innumerevoli ricerche in ambito fisiologico, cognitivo, filosofico: soggettiva e oggettiva a un tempo, naturale e culturalmente condizionata, immediata e riflessa, ingovernabile e manipolabile, distinguibile ma inscindibile dall’immaginazione e dalla memoria, la percezione non può diventare un oggetto di studio interamente dominabile, non fosse altro perché ci stiamo sempre dentro, anche quando la studiamo. E se e quando riusciamo a farne un “oggetto” di studio, quel che ci interessa di più resta il suo funzionamento all’interno della nostra esperienza storicamente determinata.

In questo senso la percezione è un medium, l’elemento in cui siamo ineluttabilmente immersi (come i pesci nell’acqua), sapendo però di esserlo. Ogni riflessione su quelle protesi percettive che sono i media usati o costruiti dagli uomini per le loro attività espressive e simboliche non può allora prescindere da quella sorta di medium universale che è la percezione e che ingloba l’accesso a tutti gli altri: “colore, pittura e grafica”; “lingua, letteratura e stampa”; “fotografia e cinema”; “teatro e radio”; “sogno e hashish”; “architettura e città”; “immagine, montaggio e storia”, sono i media indagati e altrettante sezioni del libro (ciascuna preceduta da un apposito saggio introduttivo e relativa bibliografia) in cui il lavoro storico-naturale della percezione si intreccia con esperienze diverse, fino a sfociare in un grande progetto politico di «risveglio», uno choc, che, negli intenti di Benjamin, doveva permettere di «attraversare il già stato con l’intensità di un sogno per esperire il presente come il mondo della veglia a cui il sonno si riferisce».

Da un certo punto di vista, si potrebbe sostenere con buone ragioni che il modo di funzionare della percezione di un homo sapiens (da Aristotele fino a noi), sia rimasta costante nel tempo: lo testimonia la capacità di riferirsi al mondo in modi per noi in gran parte comprensibili e condivisibili, dalle pitture della grotta Chauvet, ai libri della Metafisica ai famosi passages parigini su cui lavorava Benjamin fino al computer su cui scrivo. In un certo senso, io vedo probabilmente nei dipinti rupestri del paleolitico superiore “le stesse cose” che vedevano i loro autori, così come loro vedrebbero “le stesse cose” che vedo io quando guardo lo schermo del mio computer. Ma proprio questi esempi suggeriscono anche il contrario: forse le pitture rupestri dipinte sulle protuberanze naturali della grotta Chauvet erano percepite come gli antenati morti che, con fattezze animali, premevano verso i vivi. E quali e quanti vivi potevano guardarle (quale era il loro “pubblico”), se il percorso per raggiungerle era lungo, stretto, accidentato? La grande polarità benjaminiania di lontananza e vicinanza, aura e choc, visivo e tattile, è uno degli strumenti teorici per cogliere questo tipo di differenze nella percezione delle “stesse cose”. I nuovi media (per Benjamin la radio, la fotografia, il cinema) suggeriscono esperienze diverse: il pittore è come il mago che interviene sul paziente con un’azione a distanza; l’operatore cinematografico è come il chirurgo che si insinua nelle sue viscere. L’idea di Benjamin è che il medium supremo della percezione che attraversa i nostri corpi-menti è «innervato» di volta in volta dai media più o meno artificiali (anche l’hashish dei baudeliariani “paradisi artificiali”) con cui leggiamo il mondo. Per “leggere il mondo” abbiamo bisogno di categorie adeguate, e a loro volta le nuove categorie diventano parte di un mondo inedito.

Una categoria benjaminiana che ha avuto molta fortuna è per esempio quella di “inconscio ottico”, impensabile prima di Freud e della macchina fotografica. Oggi, con la tecnologia “light field”, la fotografia digitale permette di mettere a fuoco a proprio piacimento un qualsiasi elemento di ciò che abbiamo fotografato dopo lo scatto della fotografia, permettendoci di ispezionare ex post quel che abbiamo “percepito” senza propriamente vederlo. Supremo realismo o suprema derealizzazione dell’esperienza? Molte delle categorie proposte da Benjamin nei suoi esperimenti teorici chiedono ancora di essere messe alla prova del presente, anche al di là delle intenzioni esplicite del loro autore.

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 80. Te lo sei perso? Abbonati!

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