13 aprile 2012

ACACIA chiama, ma Milano risponde sì o no?

 
Si è aperta ieri a Palazzo Reale la mostra dell’Associazione che a Milano raccoglie i più illustri collezionisti italiani. Impegnati da nove anni a costruire una collezione per il futuro museo di arte contemporanea della città. Ma finora il Comune non ha raccolto l’offerta. E continua a non sentirci. O è ACACIA che non morde a sufficienza? Sembra un dialogo tra sordi. Eppure le opere ci sono e sono anche parecchio buone. Come vi raccontiamo nel giro che abbiamo fatto

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Non è la prima volta che i collezionisti espongono i loro gioielli di famiglia, la più grande retrospettiva in questo senso data ormai dieci anni: “De Gustibus” al Palazzo delle Papesse di Siena (a cura di Achille Bonito Oliva e Sergio Risaliti). Ma è la prima volta di ACACIA. Almeno in grande. Visto che l’associazione che raccoglie «circa un centinaio di soci, tra cui spiccano i nomi più significativi del collezionismo italiano e diversi giovani entusiasti collezionisti», spiega la presidente Gemma De Angelis Testa, si era messa in mostra in anni passati in sedi un po’ secondarie come lo Spazio Oberdan (“ECCE UOMO (33+1) artisti contemporanei nelle collezioni private di Milano”, nel 2006), ma mai era stata ospitata in un luogo come Palazzo Reale. Il bilancio? Presto per dirlo. Ma qualcuno ha già storto il naso, parlando di un allestimento che stride con il contesto aulico del luogo – ma, quando si fa qualcosa, i detrattori non mancano mai – e altri invece hanno gradito. A noi di “Exibart” è piaciuta e vi proponiamo la nostra scelta.

Si inizia con Rosa Barba, vincitrice del premio Acacia 2012: «20mila
euro che conferiamo ogni anno a un artista italiano», precisa De Angelis
Testa. Un’installazione composta da uno stralcio su velluto rosso
sospeso al soffitto e illuminato da due faretti. I lavori della Barba
sono stati definiti “sculture filmiche”, ma questo ricorda più vagamente
le teorie dell’Arte Povera e Concettuale.

Nella seconda sala si apre un dialogo ipotetico tra le sculture di Ettore Spalletti, canditi tronchi di cono rovesciati, e i palloncini di Luca Trevisani ancorati a terra. Più che un dialogo, sembra una specie di scontro tra le forme monolitiche di Spalletti e l’effimero di Trevisani.

La terza sala è dedicata a Cattelan, con il prototipo di Love saves life, appoggiato sul piano di un antico camino che ricorda la Piramide di animali di Katarzyna Kozyra ispirata a sua volta ai “Musicanti di Brema” (i debiti degli artisti).

Mario Airò nella stretta quarta sala propone due gigli bianchi di tessuto, ma con lo stelo immerso nell’acqua in due vasi cilindrici trasparenti. Un mondo parallelo, come accade in diverse installazioni dell’artista, che mischia la memoria collettiva e le dinamiche delle esperienze private.

Gli scheletri di due amanti di “dedominicisiana” memoria stanno
abbracciati distesi sul pavimento: Marzia Migliora ci parla del
superamento dei limiti fisici ed emotivi.

Bellissimo l’arazzo a pennarello, realizzato con una dovizia di particolari certosina, di Sabrina Mezzaqui che fa parte della serie Esercizi di concentrazione e che la rendono forse l’artista più interessante e poetica della mostra. Poi un Francesco Vezzoli piuttosto trascurabile e una Lara Favaretto sottotono, con un’opera composta di tubi innocenti allineati a terra. Poco da dire anche su Paola Pivi e Roberto Cuoghi.

Molto interessante, invece, il video di Marcella Vanzo, Utopia,
che indaga la condizione umana da una situazione paradossale. Gli umani
del suo video, intenti in azioni comuni come mangiare, sono “contenuti”
in immensi sacchi bianchi che ne limitano i movimenti e li fanno
saltellare come palle che rimbalzano, ostruendo tutte le comunicazioni
del corpo con l’esterno, chiudendo occhi, bocca, orecchie e lasciando
libere solo le mani che però si muovono in maniera disorganica. E belle
le tavole anatomiche del Nido di Nico Vascellari, che scompone la struttura architettonica dei nidi per gli uccelli. Un po’ narrativo, ma d’impatto.

Matrimonio azzeccatissimo tra Gianni Caravaggio e Francesco Gennari. Chi non conosce le opere di entrambi gli artisti, potrebbe dire che sono state realizzate dalla stessa mano. Anche se un punto in più lo ha Gennari, esposto con il deflagrato cubo di farina originariamente contenuto in un box formato da pareti di marmo nero lucidissimo. Che restano a terra con le relative morse che tenevano in piedi l’effimera scultura.

Ultima sala per Vanessa Beecroft e un suo scatto dove una serie di modelle di colore sono affiancate a un’unica ragazza dalla pelle bianca, mentre Grazia Toderi è presente con una stampa dove un teatro è rovesciato su sé stesso a formare un’immagine illusoria. Niente male il video di Adrian Paci, che spiega a un agente il perché di alcuni scatti fatti alla figlia che l’uomo scambia per una vaga forma di pedofilia. Il titolo racchiude tutto il senso dell’opera: “Believe in me, I’m an artist”.

Una buona presentazione, quindi, dei nove anni di ACACIA e l’aver inserito lavori molto contemporanei in un ambiente classico come gli appartamenti “privati” di Palazzo Reale ricorda un po’ quello che è avvenuto nella Reggia di Versailles con Jeff Koons. Certo, qui siamo a Milano e la proporzione è ridotta e adeguata al contesto, eppure tutte le opere, bene o male, sarebbero davvero un ottimo inizio per la collezione museale contemporanea che ACACIA ha messo a disposizione da nove anni.

Perché allora il Comune non si decide a fare questo benedetto museo d’arte contemporanea? «Penso che alla base ci sia una strategia politica nazionale che non valorizza a sufficienza la cultura. Nell’ultimo anno le amministrazioni locali si sono trovate a fronteggiare situazioni disperate, impossibilitate a sostenere la mera gestione ordinaria di strutture museali già esistenti, penso a Torino, a Napoli a Trento», risponde Gemma De Angelis Testa. «Credo che in questo momento l’ipotesi che il Comune di Milano affronti “in solitaria” la questione di un nuovo museo di arte contemporanea sia un’utopia. Ecco perchè è fondamentale ripensare a nuove forme di associazionismo e collaborazione tra pubblico e privato in ambito culturale, supportate però adeguatamente da un orientamento politico nazionale».

La risposta è condivisibile, ma qualcosa non torna. Possibile che una città come Milano, capitale del mercato e del collezionismo, non riesca a fare un passo avanti in questo senso? C’è una responsabilità anche dei privati, che non incidono, non riescono a trovare le parole giuste per confrontarsi con la politica, anche se De Angelis Testa auspica che «le Istituzioni prendano maggiore coscienza delle potenzialità e della disponibilità dei privati, partendo proprio dal dialogo con noi»? Sembra, insomma, un po’ un dialogo tra sordi. O tra interessi divergenti.

E non si vede la soluzione neanche nello sblocco dell’ex Ansaldo che David Chipperfield dovrebbe finalmente trasformare in Museo delle Culture, dove un posto spetterebbe all’arte contemporanea: «l’Assessore Boeri ha ribadito la necessità di pensare Milano come un museo diffuso, composto da tante realtà espositive ognuna con una sua accezione. Attendiamo però di sapere quale sarà la destinazione del contemporaneo, che necessita di uno spazio tutto suo pensato come “vetrina” per i nostri artisti, un luogo aggregatore e propulsore di cultura», ribadisce Gemma de Angelis Testa. E allora? Pisapia, Boeri, lo battete un colpo sì o no?


M.B. e A.P.

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