08 giugno 2013

Arte dal sottosuolo

 
Nell'Ateneo veneziano di Ca' Foscari, la Russia ripercorre il suo passato recente "Lost in Translation" è il racconto corale di 150 artisti costretti a lavorare per anni in clandestinità, venendo allo scoperto solo dopo la fine dell'Unione Sovietica. Denuncia radicale e critica ai diktat estetici del partito sono i fili conduttori. Una battaglia che per certi versi non è mai finita. E che continua oggi nell'attacco alle lobby dell'arte

di

Alexander Kosolapov Malevich – Marlboro, 1997 Acrylic on canvas 122 x 108 Courtesy of Moscow Museum of Modern Art, Moscow
Quarant’anni di arte russa sono veicolati attraverso opere degli ultimi due ventenni, linea di spartiacque tra il primo e il secondo è il 1991, anno in cui Gorbachev si dimette ratificando la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Con la fine della Federazione russa escono dall’underground tutti gli artisti che, a partire dal 1934, erano vissuti in clandestinità, non conformi ai principi del Socialismo Realista che riconosceva solo quanti illustravano i vantaggi scaturiti dalla Rivoluzione d’ottobre e l’impegno profuso nella costruzione del futuro.
La mostra offre un prezioso confronto tra le opere pre e post libertà, ma non è il suo unico pregio. Le didascalie che accompagnano ogni lavoro consentono di penetrare l’universo culturale russo nella sua complessità, in un percorso che tocca tradizioni popolari, letteratura, antropologia e modi di vivere. L’opera, reinserita nel tessuto vitale che la sostiene e la precede, offre allo spettatore una visione stratificata ricca di emozioni e sorprese. L’immagine stereotipata, trasmessa dai media sulla Russia d’oggi, riceve un contraccolpo dalle opere di questi artisti, portavoce tutti di una forte coscienza critica.
Dopo aver assistito nell’atrio di Ca’ Foscari all’ “incontro tra due statue” (1989), in cui Leonid Sokov mette Lenin e L’homme qui marche di Alberto Giacometti l’uno di fronte all’altro, alludendo a orrori passati e presenti, il visitatore passa tra due schermi televisivi contrapposti, sui quali lampeggiano in codice Morse due scritte: a destra “la Russia è ancora pericolosa”, a sinistra “la Russia è ancora amabile”. Il lavoro è di Gia Rigvava e ripropone quello commissionatogli nel 1994 per celebrare la storica caduta del Muro di Berlino e la metaforica caduta della Cortina di ferro, che aveva separato per 44 anni l’Europa dell’Est e dell’Ovest. 
Vladislav Mamyshev-Monroe
Le opere realizzate in quattro decenni non sono esposte cronologicamente, ma seguono una trama di analogie e contrapposizioni che chiedono allo spettatore una lettura attiva in cui le domande non sempre trovano immediate risposte.  
Con il linguaggio dell’illustrazione, Viktor Pirovarov racconta, in un dipinto del 1992, una scena tipica della vita in un appartamento comune, in cui vivevano fino a sette famiglie, la forma più diffusa di alloggio negli spazi urbani dell’Unione Sovietica. Una donna avverte il suo coinquilino che “la teiera sta bollendo”. L’opera riporta agli anni che seguirono la rivoluzione del 1917, quando le case dell’aristocrazia vennero confiscate e ridistribuite ai lavoratori che immigravano nelle città. Poco distante c’è l’installazione Angolo vivo di Alexandr Brodsky, realizzata tra il 2003 e il 2013, che  riproduce, in innumerevoli teche sovrapposte, l’usanza tuttora praticata di riservare, nelle scuole, negli asili, negli uffici un angolo ad animali: topi, criceti, uccelli, ragni, lucertole, pesci,  perché  piccoli e grandi imparino a convivere e interagire con le altre specie. 
Sulla parete opposta ancora un confronto tra passato e presente. Ai moderati della “Sots Art”, le cui opere inneggiavano agli eroi della propaganda sovietica presenti in mostra con diversi esempi, tra cui Vola più in alto, vola più stabile (1990) di Boris Orlo che ricorda la mitologia dell’aviazione militare russa, si contrappongono gli estremisti d’oggi rappresentati da Slogan (2010) di Sergev Bratkov che mostra immagini fotografiche al neon sui rave party cui gli artisti usciti dalla sottosuolo cominciarono partecipare, a Leningrado, alla fine degli anni Ottanta. 
Sergey Bratkov Slogan, 2010 Installation Neon, text, footprint 180 x 635 Private Collection
Prevalente in molte opere è l’uso della parola, presente sotto forma di slogan all’interno di immagini o stampata su una camicia, come nell’opera di Sergey Anufriev (1986) che riporta stralci sulla glasnost (trasparenza) e perestroika (ristrutturazione) tratti dal discorso tenuto da Gorbachev nel 1985. In simbiosi con la tradizione costruttivista e suprematista sono le lettere in versione tridimensionale dei bronzi di Vladimir Nemukin A, 111, 69 (1993). «Nella comunità undeground moscovita degli anni ’70 e ’80, i confini tra arte e letteratura erano molto sottili. La poesia – sottolinea il curatore Antonio Geusa – era una delle forme più potenti con le quali gli artisti dissidenti si esprimevano» I sodalizi allora stretti con poeti di altre nazioni, ad esempio col tedesco Martin Hüttel, ebbero molte ricadute sul piano editoriale con la diffusione all’estero delle opere di alcuni dei nomi più influenti della letteratura non ufficiale russa. Ne scaturì un intreccio tra parola e immagine ancora oggi praticato da molti artisti. 
In controtendenza con l’autoreferenzialità di molta arte contemporanea, gli artisti russi di “Lost in Trasnslation” tessono capillari rapporti con la società, divenendone strumento di conoscenza. Si tratta di una mostra che per certi versi ricorda quelle dei padiglioni esteri più interessanti dell’ultima Biennale (Angola, Cile, Grecia, Turchia, Andorra), Paesi non a caso ai margini del mondo globalizzato e che propongono opere in cui prevale la funzione etica dell’arte mirante a svegliare la coscienza critica dell’opinione pubblica sulle tematiche più diverse, non esclusa una riflessione sul ruolo e le connivenze della stessa arte col potere e le sue manovre di occultamento del reale. Una pratica questa cui gli artisti russi non hanno rinunciato, neppure quando erano costretti alla clandestinità del sottosuolo. 
Viktor Pivovarov Mariya Maksimova Your Kettle Is Boiling, 1992 Oil on plywood 70 x 82 Courtesy of ART4.RU Museum, Moscow
Emblematico al riguardo è Cannone (1975) di Andrey Monastyrsky, esponente illustre del Concettualismo (romantico) moscovita e tra le voci più forti della dissidenza negli anni precedenti la dissoluzione dell’Unione Sovietica, che mostra la vuota esistenza delle persone costrette a vivere in un regime totalitario. Sulla linea della critica radicale si schierano molti altri artisti: Oleg Kulik con il suo omaggio ambivalente a Tolstoy (2004), Leonid Sokov con Il cuore di Corvalan (1976) installazione che ricorda, con un cordone di sangue, il segretario generale del partito comunista cileno vittima delle epurazioni volute da Pinochet.
Lungi da limitarsi ad aprire finestre su episodi e personaggi della storia russa, tutti spingono lo sguardo oltre il contesto nazionale, aprendo riflessioni a largo raggio sull’arte in situazioni in cui è difficile praticarla, sulla necessità della resistenza, sulla determinazione a non arrendersi alle censure, sia quella politica che l’altra, che pende oggi sulla stragrande maggioranza degli artisti dell’intero pianeta: il diktat delle lobby finanziarie.

1 commento

  1. DAL TOTALITARISMO SOVIETICO HARD, A QUELLO OCCIDENTALE LIBERAL-CAPITALISTA SOFT….UNITà DI OPPOSTI….Sè NEL PRIMO L’ARTISTA ERA DI MORIRE DI FAME, O ASSERVIRSI AL PARTITO,NEL SECONDO L’ARTISTA è PIENAMENTE LIBERO DI MORIRE DI FAME O ASSERVIRSI AD UNA LOBBY-RACKET(POSSIBILMENTE FAMOSA-BLASONATA) DEL SISTEMA DELL’ARTE DELLA RAPINA….

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